Nel centenario della nascita di Musine Kokalari
Come un cattivo libro può uccidere un Martire una seconda volta
Nel centenario della nascita di Musine Kokalari, cosa si sa di lei in Italia? E parlo anche degli albanesi in Italia, di seconda generazione.
Ben poco, direi, se non quasi nulla.
Per fortuna (ma poi vedremo se tale termine è appropriato), l’anno scorso è stato pubblicato in Italia, il suo diario, da lei compilato (in lingua italiana), quando, a Roma, frequentava l’Università “La Sapienza”, inserito in una pubblicazione dal titolo “La mia vita universitaria” ed avente per sottotitolo “Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941)”, a cura di Simonetta Ceglie e Mauro Geraci.
Tanto per chiarire di cosa andremo a parlare, diciamo subito che l’inquietante “sottotitolo” va attribuito senz’altro ai due curatori del volume complessivo, mossi evidentemente da un furore antifascista degno di miglior causa, e non certo alla povera Musine Kokalari, che – e solo una attenta lettura del suo diario, cosa che temo i due “curatori” potrebbero nemmeno avere assolto molto scrupolosamente – ha vissuto quattro anni a Roma senza minimamente accorgersi che, in Italia, c’era il fascismo, al punto che, nelle 118 pagine del dattiloscritto originale (90 nella versione libraria) del suo diario, non nomina una sola volta questa parola.
Per carità, qui non è che si voglia negare che, in quel periodo, in Italia (ed anche in Albania, praticamente negli stessi anni) ci sia stato il fascismo: solo che, questa giovane ragazza albanese, catapultata nella Città Eterna, di tutto si è accorta meno che di “fasci e gagliardetti”, tanto venne presa dalle più pregnanti millenarie bellezze da contemplare, con una passione culturale forse smisurata, soprattutto verso alcune specifiche opere d’arte ed edifici (soprattutto sacri, cristiani, lei musulmana…) , che, dopo alcune sue prime incursioni “in solitario”, faceva poi sistematicamente visitare a parenti ed amici venuti dall’Albania, con l’orgoglio di una che le cose “le sapeva”. Solo per queste ricchezze storiche, monumentali ed architettoniche, Musine sentiva di essere nella “caput mundi”, “il luogo più glorioso del mondo” (parole sue).
Ciò premesso, vediamo come invece nei due saggi introduttivi, e soprattutto in quello del Geraci, il fascismo avrebbe rappresentato per Kokalari una vera ossessione quotidiana, cosa assolutamente non documentata, mentre è ovvio che l’ossessione è sua, del Geraci, quando, già alla quarta riga del suo saggio parla di “matricole intimorite dall’architettura littoria del palazzo”, ma è un problema che ha avuto lui, negli anni ’80, ”appena varcato l’austera soglia”’, mentre nulla ci dice che ciò abbia procurato turbamento a Musine, così come “le mille pesantezze della Roma fascista”, oppure che essa abbia ravvisato “nei palazzoni…l’oppressione imperiale, monarchica, umbertina, littoria e moderna che, da giovane albanese, avvertì subito a Roma, sperdendosi, e la paura…”, oppure che abbia avvertito (l’Italia) “come un paese distante, occupante, coloniale, fascista e filotedesco”, o che sarebbe stata turbata dalla “modernità (dell’Occidente) che scopre falsa, omologante, colonialista, fascista, futurista, armata, irrefrenabile e distruttiva”, ed, in fine, non troviamo traccia che abbia fatto “riflessioni dei e sui fatti della storia italo-albanese” o che abbia solidarizzato “coi giovani antifascisti romani”.
Infine, ci dice che aveva firmato anche per Gruaja shqiptare”, che viene definita ”la rivista delle donne antifasciste albanesi”, senza peraltro portare alcun riscontro di ciò.
Tutto questo, cioè – dai riscontri – il nulla, basta a Geraci per definirla più volte “antifascista”.
Andiamo con ordine:
- la guerra “fascista”, Musine la percepirà solo perché un suo innamorato (l’unico della sua vita, sembrerebbe), sarà costretto a “preferire” una destinazione in Libia, peraltro anche abbastanza ridossata, alla più comoda continuazione dell’amoreggiamento nei giardini romani, non si sa quanto rendendosi conto che il giovane forse aveva poche alternative in proposito, ma affatto evidenziando come sia stato il fascismo a strapparlo dalle sue braccia;
- l’occupazione “fascista” dell’Albania, Musine la vivrà come notizia, per essersi trovata in viaggio – di ritorno a casa per una breve vacanza – proprio tra il 5 ed il 6 aprile (1939), e quindi il suo primo giorno a Tirana coincise con l’ingresso in città delle truppe italiane…., ma senza registrare sensazioni e sofferenze evidenti, se si eccettua la frase “ebbi solo il timore che non mi lasciassero partire” (da Bari…).. Per Geraci, questa sarebbe la “diretta testimonianza di Musine dell”occupazione miussoliniana”. Allo stesso argomento, per contro, più obiettiva risulta Ceglie, quando riporta che “con queste scarne parole Musine, al contrario, commenta l’invasione militare fascista: “Un governo se ne andava e uno italiano lo rimpiazzava”, ed ancora “La scrittrice non dà giudizi, non si schiera: non troviamo nel testo parole di encomiastica esaltazione né di dura protesta su avvenimenti che pur essa vive in prima persona…”, e la “giovane studentessa albanese e musulmana, che tuttavia riesce a non smarrirsi in un mondo romano, maschile, fascista, cristiano……”. Scade però un po’ anche lei, alla fine, quando ci dice che “Kokalari mostra tutta la forte capacità di stare dentro i drammi in prima persona – l’emarginazione, il fascismo, la guerra., l’esclusione, la malattia, la morte…..”,
Per amaramente concludere, Geraci e Ceglie ci fanno intravedere la lettura un altro diario, forse mai scritto, o forse andato perduto….In realtà da loro solo immaginato.
Al di là dell’enorme amore – non dichiarato, ma sappiamo che così sono gli amori più grandi – che Musine ha provato per Roma (e quindi per l’Italia, anche se Roma ed Italia per Musine sono un tutt’uno), fa riflettere la frase che pronuncia tra sé e sé, nel mentre il Preside della Facoltà la proclama Dottore :
“Musine, è finita per te la vita nella grande città, dove sei venuta come straniera e dove sei rimasta tale….”, nel mentre, di fatto, quattro anni prima era giunta da un paese “straniero”, ed ora sarebbe ripartita da un paese ormai “unito” al suo, come testimoniava quel Diploma di Laurea che avrà ritirato in Segreteria, magari qualche giorno dopo, rilasciato in nome di “Sua Maestà Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della nazione, Re d’Italia e di Albania……”, e che poi avrà certamente trovato un posto d’onore nel salotto della sua casa di Tirana.
Su questo, non una parola di compiacimento, ma nemmeno una parola di stizza.
Perché sappiamo che poi, indipendentemente dal Passaporto, si è stranieri nell’anima, talvolta anche a casa propria.
Tutto ciò premesso, affibbiare l’etichetta di “antifascista” , ed in misura così evidente, aggiungendola al titolo delle sue “memorie” (la sua eredità preziosa), appare operazione mistificatoria di una violenza inaudita, soprattutto se teniamo conto che Musine Kokalari è stata, alcuni anni dopo, perseguitata politica dal comunismo, e quindi martire, essendole state volutamente negate le cure necessarie quando, dopo 16 anni di prigionia, poi convertiti in “deportazione a vita”, venne colpita da un tumore al seno, che quindi la portò inevitabilmente alla morte, all‘età di 66 anni.
Un velo pietoso dovrebbe coprire i diversi “svarioni” in storia e geografia albanese, che ci elargiscono i due “saggi”, pur avendo essi soggiornato a lungo in Albania, durante le “ricerche” esperite negli archivi albanesi, probabilmente rendersi poco conto di dove si trovavano. Oltre che faziosi oltre ogni limite, essi non hanno avuto nemmeno la modestia di far controllare i loro “saggi” da un lettore albanese, benché avessero “a disposizione” nientemeno che Visar Zhiti, il quale, persona pura, schiva, intellettualmente onesta oltre ogni limite, non avrà nemmeno immaginato in quale faziosa operazione veniva inserito il suo saggio introduttivo “Se fossi un fiore tra i rovi”: versi di una vita spezzata. Poesia e prigionia nella prima scrittrice albanese.”
E ciò è tanto più grave se si pensa che anche Visar Zhiti è stato anch’egli perseguitato politico dal regime comunista albanese, che gli ha elargito 13 anni di carcere. Oggi è Incaricato d’Affari presso la Santa Sede.
In conclusione, malgrado tutto, un libro da consigliare comunque, per l’intensità e la passione con cui Musine Kokalari ha raccontato i suoi anni romani, le sue speranze per il futuro, suo, della sua vita, ma anche del suo popolo, della sua Patria. Speranze “radiose” nel senso più puro del termine: e quindi, non nel “fascismo imperiale”, di cui non era certo una seguace (ma nemmeno una avversaria), e, men che meno, nel c.d. “sole dell’avvenire”.
Ma anche i saggi che accompagnano il diario sono da leggere, per meditare: io ne ho ricavato la sensazione amara che, in questo modo, Musine Kokalari sia stata uccisa un’altra volta, proprio alla “Sapienza”; ma, sarebbe meglio dire: alla “non-sapienza”.
Me shume respekt!
Trieste , 10 febbraio 2017.-
Paolo Muner
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Musine Kokalari, “La mia vita universitaria – Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941)”, a cura di Simonetta Ceglie e Mauro Geraci, Editrice Viella, Roma, 2016, pagg. 220.