“Quando si spegne una storia”: la poetica di Irma Kurti
Saggio di Lorenzo Spurio, scrittore, poeta e critico letterario
Irma Kurti appartiene a quel novero abbastanza ampio di intellettuali della repubblica albanese che, a seguito degli avversi avvicendamenti politico-sociali del proprio paese, sono giunti in Italia nei decenni scorsi e hanno finito per eleggere come patria adottiva, appunto, quella italiana. Si tratta di una compagine estesa di esperienze letterarie e poetiche estere che, per riferirci alle sagge e pertinenti considerazioni del poeta e scrittore italo-brasiliano Julio Monteiro Martins, hanno finito per incunearsi nella letteratura italiana, arricchendola sensibilmente e meritoriamente, speziandola e mitigandola aprendola a nuove tematiche, esigenze, moniti e forme. Scrittori di migrazioni o extra-comunitari che, giunti nella nuova residenza dove hanno creato famiglia, trovato lavoro e si sono assicurati un presente, hanno fatte proprie le esigenze di esprimersi anche con la nuova lingua, quella del paese ospitante, l’idioma della nuova realtà abitativa. Va, però, anche detto che questo non è stato in linea generale un procedimento automatico e valido in forma globale nel senso che vari intellettuali dell’Albania, a vari livelli (cito la poetessa Mardema Kelmendi) pur giunti nel nostro paese in forma stabile, e dunque a contatto diretto con la nostra lingua, hanno preferito continuare, nell’atto scrittorio, adoperando la sola e unica lingua madre. Scelte individuali al contempo rispettabili e custodi di un diverso rapporto con la propria patria o, piuttosto, dominate da motivazioni prettamente biografiche e intime, personali e soggettive, a volte addirittura traumatiche o lacerantemente nostalgiche, ancor più difficili da indagare o cercare di ipotizzare in mancanza di una chiara e diretta conoscenza con l’autore in oggetto.
Ritengo utile approfondire il percorso letterario e poetico della Kurti iscrivendone ancor meglio il tracciato all’interno della compagine della letteratura albanese della quale è senz’altro doveroso riconoscere l’importanza del contributo fornito da un intellettuale quale Ismail Kadare (Argirocastro, 1936). Egli, pur avendo esordito con la poesia, è divenuto poi piuttosto celebre come narratore dando alle stampe numerosi romanzi, i principali dei quali sono stati tradotti nelle maggiori lingue. L’opera poetica di Kadare è contenuta in alcuni libri: Le ispirazioni giovanili(1954), I sogni… (1957), Il mio secolo (1961), Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976); ritornerà alla poesia alcuni decenni più tardi pubblicando Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003) per poi rivelare pochi anni dopo in un’intervista che non avrebbe più scritto poesia. Giovanni Belluscio ha rivelato che la poesia di Kadare tradotta e conosciuta nel nostro paese è prettamente di argomento politico e richiama, per una maggiore trattazione, i volumi Tre poeti dell’Albania di oggi: Migjeni Siliqi Kadare curato da Joyce Lussu (Lerici, Roma, 1969) e La poesia degli albanesi (Eri, 1977); di contro il corpus più marcatamente lirico e meno impegnato risulta meno noto e oggetto di alcune recenti traduzioni ed edizioni anche nel nostro Paese.
Giuseppina Turano lo definisce “personalità eclettica: poeta, prosatore, pensatore, autore di saggi che aprono dibattiti e scatenano reazioni perché alla polemica letteraria quasi sempre fa seguito quella ideologica”. L’attenzione principale di Kadare, quale interprete di una società in seria difficoltà, è stata quella di rintracciare il legame culturale, storico e ancestrale della terra d’Albania in relazione al macro-contesto dei Balcani connettendolo alla comune appartenenza dell’ambito e di influenza europea. Come ha osservato la critica l’opera di Kadare, quella dei suoi romanzi, si è contraddistinta per ininterrotte e continue operazioni di revisione, correzione e rimaneggiamento: esistono plurime versioni di bozze delle sue narrazioni a testimonianza di un propulsivo atto creativo e di un’incalzante e mai doma necessità di rileggersi e di riscoprirsi.
Ismail Kadare risulta difficilmente catalogabile in una possibile stagione letteraria, ammesso che tale definizione possa dirsi plausibile nell’Albania fosca e turbolenta degli anni di regime. Difatti la sua posizione ideologica fu tutt’altro che avulsa dalla dimensione politica divenendo ben presto voce in appoggio al regime di Enver Hoxha. Non va dimenticato che il dittatore nel 1973, nell’occasione dell’imminente pubblicazione del romanzoL’inverno della grande solitudine (titolo originale Dimri i vetmisë së madhe), gli scrisse dandogli istruzioni su come meglio aggiustare il tiro nelle pagine in cui, pur implicitamente, alludeva alla sua figura e al suo contesto. Le correzioni proposte, da lui prontamente avallate, trovarono la loro forma definitiva nel testo che venne alla luce qualche anno dopo, assicurando allo stesso autore il beneplacito nonché la protezione. A differenza di intellettuali ritenuti sovversivi, l’attività letteraria di Kadare non venne solo consentita e accettata ma fu innalzata e promossa dal regime perché fonte e mezzo di accettazione, consenso e propaganda dell’ideologia comunista. Tra gli intellettuali che nell’età del totalitarismo comunista di Hoxha si distaccarono e combatterono per la libertà non possiamo non menzionare Havzi Nela (1934-1988). Di professione insegnante fu ostile all’ideologia comunista e non mancò di dimostrarlo. Fu sorvegliato speciale del regime e le sue opere vennero censurate. Fuggito in Kossovo assieme alla moglie venne arrestato e, per uno scambio di prigionieri tra Jugoslavia e Albania venne riconsegnato alle autorità competenti albanesi dove venne condannato a quindici anni di reclusione per offesa e diserzione nei confronti della patria. Nel 1986 la sua detenzione ebbe fine ma venne confinato nel villaggio di Arren. Quando morì sua madre, l’anno successivo, per andare a porgerle l’omaggio, in un’altra città, si allontanò da Arren. Scovato, venne nuovamente arrestato e questa volta condannato a morte per impiccagione. La condanna ebbe luogo nel 1988. Con l’ottenimento di una società democratica in Albania il governo si impegnò a localizzare il corpo del poeta assassinato e sepolto in un luogo anonimo e il Presidente della Repubblica Sali Berisha lo proclamò “Martire della democrazia”.
Queste sin qui citate sono solo alcune delle figure di chiaro risalto intellettuale della società letteraria albanese, per permettere, sin da subito, di focalizzare le varie e pesanti derivazioni del regime totalitario sofferte dagli albanesi e solo in alcuni contesti portate alla luce, confessate e narrate, anche per mezzo dell’artifizio letterario. Ma ritorniamo ora al nostro interesse primario.
Irma Kurti è nata a Tirana nel 1966. Si è laureata in lingua inglese all’Università degli Studi di Tirana. Nel 1988 ha iniziato a lavorare come insegnante e dal 1990 in poi ha collaborato come giornalista per il “Mësuesi” (“L’insegnante”), il “Dita informacion” (“Informazione del Giorno”) e altri giornali albanesi. Nello stesso periodo ha frequentato corsi di specializzazione in giornalismo in vari paesi esteri, tra cui Germania, Norvegia, Italia e USA. Già nota al pubblico della repubblica delle aquile con una serie di lavori poetici pubblicati e per vari testi musicali che le hanno portato discreto successo, nel suo paese la sua attività letteraria è iniziata da giovanissima: nel 1980, infatti, venne premiata con il primo premio nazionale in occasione del 35° anniversario della rivista “Pionieri” e nel 1989 arrivò seconda al Concorso Nazionale organizzato da Radio Tirana in occasione del 45° anniversario della liberazione dell’Albania. Al pubblico albanese è conosciuta anche come scrittrice di testi di musica leggera, con cui ha partecipato a numerosi festival nazionali. Nel 1998 ha pubblicato il primo cd contenente le sue canzoni di maggior successo e nel 2013 il secondo. Le sue poesie sono incluse in alcune antologie della Libreria Internazionale di Poesia del Maryland, tra le qualiForever spoken (Detto per sempre) e The best poems and poets of 2007 (Le poesie e i poeti migliori del 2007). Inoltre, sue poesie e racconti fanno parte delle raccolte antologiche: Il Federiciano(Aletti Editore, 2010), Antologia del Concorso Diffusione Autori 2011 (GDS Edizioni), Antologia Lingua Madre – Racconti di donne straniere in Italia 2012/2013, Enciclopedia Universale degli Autori Italiani (anni 2013/2014/2015/2016), Adriatico: emozioni d’onde e sentimenti (2017), ecc. Gran parte della sua attività poetica è stata tradotta anche in lingua inglese.[ii] Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti letterari in Italia e nella Svizzera Italiana, dove nel 2013 le è stato conferito il Premio Internazionale “Universum Donna” IX Edizione per la Letteratura. È stata inoltre investita della nomina a vita di “Ambasciatrice di Pace” dall’Università della Pace della Svizzera Italiana. In Italia è giunta nel 2006stabilendosi a Bergamo. Numerose le sillogi poetiche edite nel nostro paese: Risvegliare un amore spento (2011), Sotto la mia maglia (2013), Non è questo il mare (2014), Sulla soglia di un dolore (2016) e la recente Senza patria (2016).[iii]
Il mio approfondimento partirà proprio da questo suo ultimo lavoro, dal cui titolo promana distintamente un senso al contempo di abbandono e straniamento. La condizione di apolide[iv] che la Kurti descrive nella prima sezione di questo libro che contiene liriche che vanno sotto il titolo di “I ricordi in versi” fuoriesce mediante una riflessione prevalentemente amara e nostalgica sul tempo andato dell’infanzia e dell’adolescenza. La patria natia, l’Albania, che la donna ha dovuto lasciare in cerca di migliori condizioni giungendo in Italia viene descritta in qualche modo come perduta.
Sebbene la poetessa sia ben integrata nel nuovo ambiente, al contempo non può riconoscerlo come suo, come nativo e sorgivo, sperimentando con esso una sorta di rapporto di sopravvivenza, di convenienza, quale surrogato dettato dalle nuove necessità che si sono venute a creare. Si percepisce nettamente nelle liriche di Irma Kurti questa desolante ricerca delle origini, quasi asfittica e rabdomantica, i suoi versi sono come scapestrati abbordaggi verso le coste del suo paese, c’è tormento e una sensazione d’incompletezza che spesso, nella quotidianità rituale del giorno, dà luogo anche a inadeguatezza e tristezza. È in questi momenti in cui la sua situazione di albanese-senza-patria, di straniera, vale a dire di sradicata, che l’animo della Nostra è intaccato più duramente da tutte quelle immagini che hanno contraddistinto un periodo felice e condiviso, spensierato e dominato dall’amore disinteressato. Gli spettri del passato inseguono e fanno capolino di continuo, sembrerebbe con un facile sadismo, in “que[l] suolo estraneo” (15) che, volenti o nolenti, è la vita del presente.
L’immagine dell’Albania di alcuni decenni orsono che traspare dalle narrazioni della Kurti non è affatto positiva: un paese povero e sordido, arretrato e consumato dalla corruzione, negletto al bene sociale, utilitarista e insensibile alle necessità del singolo. Si vedano alcuni estratti significativi tratti dal romanzo autobiografico Tra le due rive (2011): negli uffici albanesi c’erano impiegati indifferenti, maleducati, che d’un tratto cambiavano atteggiamento quando io davo loro soldi di nascosto. […] Si rendevano gentili ed ipocriti, disponibili ad aiutarti. Li odiavo quando si trasformavano così, odiavo tutto il sistema corrotto” (13); “C’erano molte cose che mancavano nel mio paese” (20); “La disonestà dello Stato albanese che non assicurava nulla agli ammalati, contro i politici, contro… tutto il mondo” (37). Del periodo di regime vissuto dall’Albania la poetessa ricorda la censura, l’embargo di prodotti, l’ingorda e laida filosofia inneggiante la retorica di regime: “Al mercato si trovavano solo prodotti nostri, niente dall’estero. Non c’era abbondanza” (101); “La maggior parte delle poesie erano dedicate all’unico partito di quel periodo, Partia e Punes (ovvero il Partito del Lavoro) ed al suo leader, Enver Hoxha. Le poesie, piene di demagogia, esprimevano poco i nostri sentimenti. Tuttavia, questo non ci impediva di essere felici, di gioire quando vedevamo pubblicate le nostre composizioni e di sognare che un giorno saremmo diventati famosi” (102).
Cosa contiene il passato di Irma Kurti? Esso è come un armadio ampio e irraggiungibile dagli infiniti scaffali, con ripiani lunghi e interminabili così imperscrutabili che non si riesce a toccarne il fondo. In essi dimorano “brandelli di memorie [e] conchiglie rotte” (16) e tutti quegli oggetti, quelle erbe e quei colori che ne motivano una coscienza chiara e volitiva atta a “preservare costumi, tradizioni” (13). In questo avvicendamento continuo di pillole di memoria che spesso rendono la spoliazione e il disorientamento fattori preminenti a determinare instabilità, si rivela profondo orgoglio nella Nostra nel rivelare di aver “combattuto da sola […] senza chiedere aiuto” (18) a dimostrazione di una tempra fiera e battagliera.
La poetessa, dai cui versi promanano immagini cariche di romanticismo, non è talmente pessimista e lamentosa da rinchiudere il suo mondo in ciò che è accaduto e può rivivere solo col pensiero, ma parla anche del presente, spazio che non circoscrive ma che definisce tra due limiti in sé astrusi eppure alquanto sconvolgenti e fiaccanti: “noia e stress” (17). Giornate nelle quali ricerca il giusto spazio per lei, il silenzio, allontanandosi dal rumore di fuori per concedersi tempo a sé stessa, ad ascoltare la sua anima. Ma non è così semplice saper ascoltare se stessi se non ci si è formati nella palestra della vita, se non si è riusciti a porre l’importanza del sentire il proprio io dinanzi alle vorticose realtà del contingente; ecco perché, delusa e sfiduciata, la vediamo spesso inetta nell’autogestione del suo apparato volitivo tanto da finire come travolta dall’invalicabile corso degli eventi (“sento che il giorno dalle mani mi sfugge”, 17). Due velocità diverse che creano afasia e distorsione, binari precisamente distanti che raramente sembrano incontrare la giusta congiunzione. Le accezioni del contemporaneo non sono molto fertili e attrattive difatti il mondo è descritto mestamente (ma direi con lucidità) come “crudele e finto” (19) frutto cioè di un uomo che è spesso improntato a generare male contro se stesso e gli altri, di un essere che ha perso la spontaneità per rincorrere ai più biechi meccanismi, compresa la menzogna e il tradimento, per raggiungere i suoi scopi.
In questa disamina di un tempo che trascorre spesso velocemente non permettendo di godere del tuo tempo come vorresti o di distanziarti da quel brulicame di suoni che generano stanchezza, la Nostra parla del “giorno [che] trascina” (19) come un vortice inarrestabile, un getto inconsulto d’aria in refoli ingestibili che fanno arrabattare oggetti, volare foglie e travolgere tutto ciò che incontra nel suo percorso. Metafora ben costruita che rimanda alle puntuali considerazioni filosofiche sul tempo e la sua percezione di cui i più grandi pensatori, da S. Agostino a Shakespeare sino a T.S. Eliot trattarono: il tempo è dissipazione. Qui, nella Kurti, pur avendo una connotazione negativa di un’entità astratta che porta in qualche modo a una situazione di abbrutimento o distruzione dal prima, il tempo porta via come se, pur non visto, ci afferrasse alla mano e ci facesse compiere salti temporali e spaziali consistenti, ci sbatacchia, accelera e ci comanda. In quel tempo – più o meno lungo nel quale siamo “trascinati” – è come se si producesse una sorta di annullamento del nostro micro-cosmo, della nostra essenza. Non esiste, in effetti, una possibile pozione o un nutrimento speciale che possa eludere questo impotente trascinìo al quale siamo soggetti sebbene la Kurti, azzimata da motivi della tradizione classica e agreste, reclama un invito prezioso (il carpe diem a fronte deltempus fugit): “Devi combattere ogni minuto della vita” (19) anche per cercare di mitigare (non è possibile annullarle) le “afflizioni del mondo” (20) mediante un impegno etico che, seppur non richiamato direttamente, sembra percepirsi tra le righe.
Incistate nelle carne le poesie di Irma Kurti parlano di desolazione anche quando la natura sembra intervenire a mitigare quell’assenza e lontananza dalla terra madre: componimenti che nutrono e figliano nella loro recondita eppur viva “nostalgia infinita” (13) tra “ricordi smarriti” (23) che si approssimano a divenire sbiaditi pur restando indelebili e cocenti. Il percorso umano è allora teso a una sfida continua che, giorno dopo giorno, ha manifestazione sotto un cielo che non è quello che vorrebbe coprisse i suoi pensieri; la poetessa è volitiva e ferma nel suo scopo di “guarire la nostalgia/ della [sua] terra sofferente” (15) o, per lo meno, di tentare. Si stagliano così mondi in sé lontani che la Poetessa mescola nei versi, tra sprazzi di un passato felice che fuoriesce impetuoso come da una sorgiva nei suoi “ricordi lontani” (45) e quel presente difficilmente descrivibile dove “la […] magia si è trasformata in nullità” (23). Curiosa questa attribuzione di immagini in cui il presente, che rappresenta la vita vera che, pur indefessa e a volte cruda, accade ha la forma vaga e annichilente della ‘nullità’ mentre l’infanzia rimane un verde racconto popolare dal lieto finale: “quando vivevo la vita uguale a una favola” (45).
Si pone così il dilemma su come sia possibile (ammesso che, effettivamente, lo sia) convivere con questa situazione di tumulto interiore, d’inadeguatezza fisica, di spossamento psichico, di bilocazione e perdita di personalità. Irma Kurti, consapevole della sua unica natura che aspira a una biunivoca appropriazione degli spazi (“tante volte appartengo/ alle due terre”, 50) spesso si scopre ingabbiata e stordita in questo sistema di ambienti che non hanno felice intersezione: “sono indifesa, fragile/ mi sento un corpo nudo/ in un giorno d’inverno” (50).
La lontananza dal mito dell’infanzia, da quella spensieratezza e godimento ormai tramontati e decisamente relegati a un’età non più ravvicinabile anche per mezzo della dipartita della madre, è al contempo fremito d’amore che s’incunea e si amplifica nei momenti di lancinante assenza e di un naufragio sulla costa del suo paese. Non c’è invito al compatimento sebbene i toni della poetessa si facciano rarefatti e si percepisca l’intensità del tormento intimo, fratello di quello di tanti esuli a lei simili, che, con un rinato coraggio e concretezza (ciò che il mondo del presente reclama e fagocita) avanza la formula di speranza che nasce nella profonda introspezione e recita: “continuerò a esistere così,/ con l’anima che si libra/ nell’aria dei due paesi” (15).
Varie liriche non mancano di rivelare un’umanità disattenta trincerata non di rado dietro i più biechi egoismi; sapendo del parallelismo della Kurti tra passato-favola e dunque un mondo felice e mitico, pare di credere che simili attestazioni si riferiscano al mondo ruggente della contemporaneità che si contraddistingue con la sua età adulta vissuta in Italia. La poetessa, quale abile analista di un popolo spesso stanco e improntato alla noia nonché sedotto dal facile interesse, parla con un monito di stizza seppur taciuto della “freddezza della gente” (27), una forma di lontananza assai più fastidiosa e invalicabile di quella meramente fisica nei confronti del suo paese oltre l’Adriatico.
L’insensibilità è descritta anche nelle forme dell’omertà e dell’indifferenza (la “gente che chiude le orecchie”, 27), in un’incuria etica assai spregevole che porta all’immolazione dell’ego e al bistrattamento del vicino come quando osserva che l’uomo è “insensibile/ alle angosce degli altri” (53). Ritornano spesso le immagini-simbolo della maschera, paravento che annulla la desolante e infingarda realtà per trasmettere l’illusione e l’ipocrisia.
Plastiche e ineluttabili le immagini di dolore e spietatezza che attorniano la poetessa come quella di un impressionante cielo delineato nella sua “camicia insanguinata” (Sotto la mia maglia, 2013) o, ancora, di una giungla[v]indistinta di luci abbaglianti e di suoni indecifrabili: “La mia vita è stata una foresta gigante,/ con sentieri e percorsi, assai complicata” (Sotto la mia maglia, 2013). Irma Kurti rifugge la società sprezzante, egoistica e insensibile all’altro[vi], costituita dai “tanti esseri strani, diciamo bestie” (Sotto la mia maglia, 2013), anelando a uno spazio bianco e sospeso nel quale “incontr[a] gente/ che non sa cosa siano/ gl’intrighi e l’invidia” (Sotto la mia maglia, 2013). Il tentativo spesso appare vano giacché non di rado si palesa dinanzi ai suoi occhi che “Questo è tempo della gente arrabbiata,/ non si sa con chi, con il sole o la luna,/ delle persone che non riescono a tacere,/ quelle che parlano, ma non dicono nulla” (Sotto la mia maglia, 2013). Ci troviamo a vivere – per dirla con altri termini – in una barbarie comunicativa figlia di un’inciviltà sociale sempre più preponderante. Considerazioni che sembrano ulteriormente radicalizzarsi senza scampo o possibilità di tregua: “Ma la pace è sfuggente, scappa/ Il male lì fuori è più potente,/ la sfida e riesce a penetrare/ dentro le palpebre abbassate” (Sulla soglia di un dolore, 2016). In questo seminato dove mai nulla è ciò che appare la vanità indossa i suoi abiti migliori e, agghindata, dietro una smorfia di belletto vive nel gaudio di buffet dove si scorpacciano pregiudizi, false realtà e si fortificano paure.
Nella seconda parte del libro, “Questo amore”, leggermente più esigua da quella che l’ha preceduta, trovano posto liriche intimiste nella forma del canto d’amore che la poetessa rivolge agli amati genitori che ora rievoca. In “Ho bisogno di voi” è contenuta, in un verso accorato e dedicato ai genitori, un sorta di appello verso l’altro. La chiusa della poesia fa ripiombare la poetessa nella drammaticità del presente: “il mondo è estraneo, l’arena di un circo/ riempito di rose e di bestie selvatiche” (60). Scorrono così, con una piacevolezza moderata e un disincanto che si scioglie nelle liete memorie, fotogrammi di una natura amica come il salice piangente, che ora diviene metafora di un lamento infinito, i cieli stellati e “quella bella casa su in collina” (73), antri di una sofferenza epidermica che riaffiora acuita dal senso d’assenza e dall’inquietudine mai doma della lontananza. In “Fino all’alba”, il più alto canto d’amore, forse, dell’intero volume, nella forma di un io lirico rattristito e impotente dinanzi alla malattia. Nel canto lirico il dolore, che nella realtà tracima da ogni parte ed è insolubile anche alla più lieve speranza, diviene una sorta di gioco, pure infausto, dove il cancro è vincibile e sanabile: esso può essere spostato e rimosso a piacimento, come un semplice pezzo di Lego: “spostai la tua malattia nel mio corpo/ […] / trasferii la tua tosse nel mio polmone” (69). Nella complessità di versificare un dolore così ampio, Irma Kurti si palesa come anima sibillina, priva di opacità e remore, talmente appassionata della vita da tentare l’elaborazione del trapasso e del lutto mediante l’abbattimento della carnalità e la costruzione di una dialettica quasi infantile e giocosa, pure laddove la morte non fa sconti a nessuno.
Nell’immagine della figlia che, per dar vita al genitore è disposta a un atto sacrificale assumendosi i dolori sul suo corpo, è patente l’animo compassionevole e il forte legame d’amore che la unisce alla persona cara. “Non morire”, sembra sussurrare, “Io senza di te, non ce la farei”: atto di sfogo, pur nei toni tenui e mai indocili che contraddistinguono la sua penna dove la poetessa si riscopre ancora troppo figlia da non poter credersi donna matura. Si compie così, con un evento assai traumatico e ineludibile, il trasbordo completo da una vita di contentezza e unità familiare a un quotidiano spesso desolante e gravato dalle pillole di memoria. Si realizza uno strappo insanabile, netto; esso a livello psicologico trova forma in una grave lacerazione che ottunde. Il divario che s’instaura con l’eden spensierato, divenuto ormai immagine mitica e danzante, è al contempo componente nel percorso di sviluppo, crescita e approfondimento della coscienza. “Quando si spegne una storia” – per citare un verso della Nostra – la stanza non si riempie di un buio insondabile, piuttosto è ingravidata da un crepuscolo pesante e polveroso dove, nel torbido di una luce grigia, il ricordo dà staffetta al senso dell’esistenza. Nell’affaticamento provocato dalla dominazione di immagini ectoplasmatiche che tornano ad abitare con noi, è pur possibile trovare un segno positivo, quello di una presenza calda e costante, di una protezione continua alla quale siamo stati affidati per affrontare l’incalzante mondo di fuori.
Jesi, dicembre 2017
[i] Tutte le citazioni (con il relativo numero della pagina), dove non diversamente specificato, sono tratte da Irma Kurti, Senza patria, Kimerik, Messina, 2016.
[ii] I libri tradotti in inglese sono I knew the gray sky (Ho conosciuto il cielo grigio), 2014, Under my blouse (Sotto la mia maglia), 2015 e A cottage in the forest (Una casetta nel bosco), quest’ultimo un libro di poesie per bambini pubblicato nel 2016.
[iii] Irma Kurti è anche scrittrice e, nella nostra lingua, ha pubblicato i romanzi Tra le due rive (2011) e In assenza di parole (2017) e le raccolte di racconti Un autunno senza ritorno (2012) e Le notizie arrivano anche qui (2014).
[iv] Apolide da intendersi in senso di nazionalità e di identità. Così scrive: “Tu non sai cosa vuol dire essere straniero/ In un paese bello e affascinante come questo” (Sotto la mia maglia, 2013). Belli e significativi anche quest’altri versi: “Solo la pioggia venne a salutarmi./[…]/ Cambiai paesi, lingue e anche costumi,/ma non riuscii a diventare ricca mai,/ nonostante tutto, ho sempre badato/ non rimanesse affamata la mia anima./ Così ogni giorno cercavo di nutrirla” (Non è questo il mare, 2014).
[v] L’immagine della giungla ritorna in un’altra lirica che fa parte dello stesso volume dove leggiamo: “Il mio essere – una giunga complicata” (Sotto la mia maglia, 2013).
[vi] “L’indifferenza della gente mi ha colpito/forte come una sferza il corpo e l’anima,/ la delusione si è rifugiata nella ferita” (Sulla soglia di un dolore, 2016).