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Ismail Kadare: Le civiltà balcaniche devono imparare a convivere

“Uno dei più grandi scrittori europei, Ismail Kadare, si esprime su temi estremamente delicati: la divisione tra serbi e albanesi, il perenne astio reciproco, la rabbia e il rancore, le amicizie e gli equivoci con gli scrittori serbi, le distorsioni della storia -che superano di gran lunga il dramma balcanico-, e spiega inoltre il motivo per cui la Serbia avrebbe dovuto essere la prima a riconoscere l’indipendenza di Kosova”. Con queste parole la più importante rivista serba, NIN, introduce l’intervista della giornalista Branka Bogavac a Ismail Kadare.La giornalista si sofferma innanzitutto sulla figura e sul ruolo di scrittore affermato che Kadare ha ormai guadagnato nel mondo, senza tralasciare i paragoni con Omero, Dante, Kafka che nel corso degli anni gli sono stati associati. La prima domanda verte, appunto, su quanto la fama di cui sopra possa contribuire ad aumentare il senso di responsabilità dello scrittore nel paese, nei Balcani e nel mondo in generale.

Kadare, come primo punto, evidenzia la propria posizione circa il ruolo della letteratura nella storia dell’umanità: “La letteratura non può risolvere i problemi di questo mondo; potrebbe anche succedere, ma in tal caso perderebbe il ruolo che le è intrinseco”. In seguito lo scrittore si sofferma sui paragoni fatti poco prima, affermando che nella maggior parte dei casi non sono corretti, e a volte si possono rivelare pericolosi: Omero, ad esempio, è stato il primo colosso della letteratura a parlare della guerra senza alcuna riserva. Oggi lo avrebbero censurato ovunque. Per attualizzare il discorso, Kadare non esita a ricordare una delle ultime iniziative dell’ONU, quella di sottoporre a censura Dante Alighieri. Esprimendo tutto il suo sdegno in merito, lo scrittore consiglia vivamente di leggere lo scrittore toscano come si deve anziché fantasticare, per poter imparare come condannare i crimini contro l’umanità, cosa che lui ha fatto meglio di chiunque altro.mosmarreveshja-ismail-kadareNella seconda domanda la giornalista serba si concentra sul famoso saggio dello scrittore “Il disaccordo” (“Mosmarreveshja”), ritenuto il picco massimo del pensiero albanese, in cui Kadare tratta i rapporti tra i vari stati balcanici e quelli tra questi ultimi e l’Europa. Egli si mostra diretto e duro nel giudizio sia con gli albanesi stessi sia con gli altri popoli balcanici, in una sorta di specchio impietoso davanti a tutti. Chiestogli se gli altri scrittori balcanici avrebbero mai seguito lo stesso esempio nei confronti dei loro popoli, Kadare risponde che naturalmente vorrebbe che questo succedesse, ma puntualizza anche che le classi politiche balcaniche fanno moltissima fatica a uscire dalla vecchia trappola del nazionalismo esasperato, applicando ancora la teoria del mors tua, vita mea. Questo di sicuro non facilita l’Europa nella collaborazione con la propria penisola più problematica, anche perché l’approccio dei popoli balcanici nei suoi confronti non è univoco; ad esempio, è ben noto l’amore sconfinato degli albanesi nei confronti dell’Europa e degli Usa, questo perché il loro allontanamento dal vecchio continente nel corso della storia è stato vissuto in modo più tragico rispetto ai popoli slavi. Se, infatti, questi potevano comunque godere dell’appoggio degli altri popoli della stessa etnia, gli albanesi non avevano invece nessuno affine a loro: ecco perché essi, come diceva un famoso poeta albanese, “amano l’Occidente con un amore tragico”. Lo scrittore chiarisce inoltre il fatto per cui spesso l’europeizzazione dei Balcani può creare degli equivoci, ad esempio la denazionalizzazione a scapito dei nazionalismi, che secondo lui non deriva dall’amare troppo se stessi, bensì dall’amarsi male -argomento, questo, trattato ampiamente anche nelle sue ultime opere-.

In seguito gli viene chiesto se ritiene che la regione balcanica sia in qualche modo “maledetta” in riferimento agli equivoci venutisi a creare nel tempo e considerando il fatto che Kadare ha guadagnato fama europea e mondiale proprio a partire dalla penisola balcanica. La risposta dell’autore è breve e concisa: sostiene, semplicemente, che non vi è nessuna regione o popolo maledetto. L’essere maledetti presenta due sfaccettature; quella positiva, che incita alla protesta, e quella negativa, che spinge invece a rassegnarsi.

Rispondendo alla domanda successiva, Kadare spiega il motivo per cui non si ritiene un dissidente: “La dissidenza, la contrapposizione pubblica di un ordine, di una dottrina o di uno stato, l’Albania comunista non le ha mai conosciute”– afferma. Non vuole porsi domande sul perché ciò non sia mai accaduto, dato che non rientra nella sfera d’influenza della letteratura. Quest’ultima, secondo lui, è infatti un mondo parallelo, indipendente, le cui leggi differiscono da quelle della società; se così non fosse, buona parte della letteratura medievale e di altri periodi verrebbe messa da parte, in quanto contrastante con i principi della società contemporanea quali emancipazione, libertà, ecc.

Nella domanda successiva la giornalista, dopo aver ricordato come Kadare abbia racchiuso nelle sue opere la cultura, la storia, la letteratura, il folklore, la politica e le disgrazie della regione balcanica nel suo complesso, chiede all’autore il suo parere sull’origine di tutti questi conflitti.

Solo un ingegno brillante e lungimirante come quello di Kadare poteva dare una risposta soddisfacente a questo tipo di domanda: “ Queste domande vengono poste ovunque da molte persone, molti uffici, in molte lingue. Di primo acchito sembrano molto facili e chiare, addirittura si è impazienti nel cercare di darvi risposta. Ma subito dopo, all’improvviso, la chiarezza svanisce nella nebbia del dubbio: quando le cose sono così scandalosamente, così miseramente chiare, allora perché non si trova la risposta? Cosa ce lo impedisce?In occasione di un’assemblea internazionale di scrittori a Svizzera, dopo la caduta del comunismo, mi ricordo di uno scrittore che non vedeva l’ora di prendere la parola per raccontare del suo paese ex-comunista. Il secondo giorno, in cui gli toccava parlare, all’improvviso ebbe un blocco, uno shock causato dalla notizia di una manifestazione studentesca nel suo paese con lo slogan: “Giù il popolo!”Mi viene in mente questo caso ogni volta che sento affermazioni pessimistiche verso i Balcani senza futuro. Ricorrono spesso asserzioni di questo tipo, che somigliano allo slogan degli studenti sopracitati: “al diavolo i Balcani, assieme al loro sogno europeo!” Sono sempre stato contrario a questo tipo di cinismo. Non siamo qui per questo, ma per tutt’altro. Cerchiamo di rendere accessibile l’idea di che cosa sia il progresso umano, di cui fa parte anche il nostro progresso balcanico.

Facciamo fatica ad abbandonare i sogni folli, le missioni buffe. Non riusciamo a realizzare che non ci sono popoli missionari nei Balcani e non credo ve ne siano altrove. La missione greca, che si aggrappa ancora alla liberazione di Costantinopoli, è altrettanto buffa quanto quella serba, che mira alla distanza “Belgrado – Tokyo”, e con la stessa mole, se non maggiore, è stata buffa anche quella albanese che mirava alla difesa del “marxismo – leninismo” su scala globale. L’odierna situazione dei Balcani è tanto complicata quanto facile. Nei Balcani contratti di oggi, dopo l’auto-secessione della Slovenia e della Croazia e forse anche della Romania, sembrano rimanere -o forse lo sono veramente- solo tre i popoli irrinunciabili: greci, albanesi, slavi. Non sono soltanto tre popoli nei propri territori, bensì sono tre civiltà, tre culture con tre lingue diverse (addirittura con tre alfabeti diversi: latino, greco e cirillico). I Balcani non si possono
immaginare senza uno di questi tre componenti. Radicatisi nella regione da secoli, l’esistenza dell’uno non può prescindere da quella dell’altro. In caso di conflitti o meno, si è obbligati a trovare un accordo, con o senza la buona volontà. Vi sembra una versione triste? Credo che quello che abbiamo vissuto pochi anni fa non sia stato meno orribile. Per tornare a una visione più benevola, bisogna dire anche che storicamente c’è pur stato una sorta di bilanciamento nei Balcani. Oggi questo bilanciamento è ancora più sicuro perché sotto tutela dell’Unione Europea e alle condizioni da essa poste. Per tornare ora al trio balcanico, credo siate della mia stessa opinione sul fatto che nessuno di questi tre, in nessun modo e in nessuna circostanza, può essere sradicato dalla regione “problematica”. Il tutto sta nel comprendere questo. Quindi si può rivolgere una semplice domanda: Viene compreso ciò? È facile dire di sì, mentre è molto più difficile osare scendere in profondità del problema, a trovare le radici del male, e questo non per resuscitare vecchi rancori, ma invece per troncarli.

Esiste una dottrina nei Balcani, una bozza del 1938, che richiede apertamente l’espulsione di uno di questi tre popoli. La bozza è stata scritta da un celebre accademico, Vasa Cubrillovic, col titolo “L’espulsione degli albanesi”. Secondo questa teoria, dato che la vita della nazione serba non poteva essere sicura accanto agli albanesi, l’unica soluzione era l’espulsione di questi ultimi dalla regione balcanica. Tale espulsione sarebbe partita con l’espulsione degli albanesi di Kosova. Ormai sono a conoscenza di questa bozza da moltissimi anni, ma non ho mai sentito che l’idea venisse condannata in Yugoslavia o ex- Yugoslavia. Un progetto criminale non condannato è molto più pericoloso di un’organizzazione terrorista segreta.

Nel 1999, quindi 60 anni dopo, tutto il mondo ha potuto essere testimone della messa in atto di questo progetto.

La condanna delle radici nocive è obbligatoria per tutti. In caso venisse scoperto un tale progetto nel mio paese, in Albania, accetterei pubblicamente il disonore della non- condanna di essa, ma anche quello del ritardo nella condanna” Kadare viene anche chiamato a esprimersi sui rapporti con gli altri scrittori slavi (serbi, macedoni, croati e gli altri).

Egli chiarisce innanzitutto che gli scrittori non sono angeli, dunque possono anche deviare, ma tale deviazione è accettabile solo se temporanea. Per essere più concreto nella sua risposta, lo scrittore racconta due esempi estremi di amicizia con scrittori jugoslavi: il primo è Danilo Kish, con cui crea un vero e proprio rapporto amichevole dopo averlo conosciuto a un’assemblea letteraria all’estero nel pieno dell’inimicizia tra i due paesi. È curioso come, durante un viaggio in barca, un loro collega francese sia rimasto stupito nel vedere un albanese e uno iugoslavo discorrere per più di un’ora, e per di più sorridersi a vicenda.

L’altro amico era invece Vuk Drashkovic, che Kadare considera tutto l’opposto del primo. Il loro contrasto nasceva dal fatto che Drashkovic aveva più volte chiesto al suo collega albanese di ritrattare la sua posizione su la Kosova, cosa che sottintendeva il silenzio davanti alla pura crudeltà, ai ribelli, a coloro che uccidevano la pace, ai distruttori della cultura, agli omicidi di Puskin,ecc. e del tutto inimmaginabile per colui che era rappresentante della voce di tutti gli intellettuali albanesi. Infine ricorda un terzo caso, quello di Milorad Pavic, un perfetto neutrale, tipo taciturno per natura o per scelta, di cui non è mai riuscito a capire fino in fondo la posizione. La giornalista domanda quindi in che modo si potrebbe trovare una soluzione ai secolari problemi tra i due popoli e se, a questo scopo, potrebbe in qualche modo giovare un “ponte” tra intellettuali e scrittori di ambedue gli stati. “La letteratura – risponde Kadare- può giovare tantissimo, ma necessita una comprensione basilare delle cose“. È risaputo che la terra viene determinata in base al popolo che in esso vive, e non per certo in base agli alberi, fiumi o qualsiasi altro oggetto presente. Dunque, sulla base di questa semplice equazione, Kosova è innanzitutto albanese, per il semplice fatto che quella terra è abitata da un popolo a maggioranza albanese. La Serbia, invece, pretende che Kosova sia serbo, pur essendo abitato da albanesi. Ecco dunque l’unde malum. Non vi è rimedio a un tale equivoco, sì, vi era un tempo, ma si trattava del periodo delle colonie. Quel tempo è ormai defunto. Secondo la mentalità tipicamente balcanica, si cerca spesso di stabilire come padrone di questa terra chi vi è arrivato per primo, e pietra miliare è la Battaglia dei merli del 1389. Secondo Kadare, il territorio in cui avviene una battaglia non può in alcun modo stabilire a quale popolo quel territorio appartiene, altrimenti oggi l’Europa sarebbe nel caos più totale, ricordando che le battaglie più importanti, come Waterloo, le battaglie di Giulio Cesare, ecc. si sono svolte tutte in territori diversi. Inoltre la storia della battaglia della Kosova è stata modificata a seconda delle convenzioni politiche. Invece Kadare ritiene che questo momento avrebbe dovuto costituire la nascita di un’amicizia storica tra i due popoli, e non il contrario com’è invece avvenuto. “Signor Kadare, lei è stato favorevole a infliggere una punizione alla Serbia? “ – domanda la Bogavac. Le parole con cui risponde sono incisive. Egli ha approvato il bombardamento della Serbia, e persevera nella sua opinione. Il motivo, seppur sorprendente per un uomo di cultura del suo livello, è questo: “In quelle circostanze tragiche, questo era l’unico modo per troncare il male. La storia dell’umanità raramente, molto raramente ha conosciuto un bombardamento inevitabile, necessario. Ma la storia dell’umanità non ha mai conosciuto un massacro necessario. Dunque, in mancanza di scelte alternative, pur con molto dolore bisognava acconsentire all’impiego delle bombe, che avrebbero generato morte e distruzione, non solo al popolo serbo, ma anche a quello albanese. Questa è stata la mia motivazione.”In modo altrettanto schietto e spontaneo, Kadare risponde alla domanda se i popoli balcanici abbiano tratto una valida lezione da questi conflitti senza fine. “ I popoli forse sì, ma le élites politiche non credo. La loro cosiddetta emancipazione è molto lenta, per di più superficiale e menzognera. Alcune di loro possono cambiare il modo di esprimersi, ma in nessun caso il nucleo vero e proprio. Ad esempio, evitano di usare il termine “pulizia etnica”, ma non esitano ad affermare “non ci ritiriamo dalla Kosova”. A un’ulteriore richiesta della giornalista di precisare e chiarire meglio la differenza tra parlare di “espulsione degli albanesi” e dire “ Non ci ritiriamo dalla Kosova”, Kadare non esita a sostenere che una frase come quest’ultima in primo luogo sottintende la necessità di mettere in atto la pulizia etnica per raggiungere tale obiettivo; in secondo luogo, poi, tali affermazioni vengono fatte nel contesto dell’Europa odierna, mentre si discute se accettare la Serbia nell’Ue. Se invece la Serbia riconoscesse l’indipendenza della Kosova -oramai un dato di fatto- senza reclamare un Kosova che la realtà vuole abitato da albanesi, i rapporti tra gli stati balcanici sarebbero senza dubbio di gran lunga migliori. Inoltre lo scrittore specifica che il conflitto è stato interrotto, non concluso, dal momento che la coscienza colpevole ne è uscita indenne.

Successivamente, egli deve riconoscere le colpe degli albanesi da un lato e quelle dei serbi dall’altro. La risposta verte su una semplice equazione matematica: nel caso della Kosova, cioè, si trattava di un conflitto tra uno stato (la Serbia), e una popolazione (quella del
la Kosova) che in realtà rappresenta un quarto degli albanesi. Se la giustizia è una proporzione, allora questo conflitto è stato del tutto imparziale. Tuttavia egli chiarisce che non vuole in nessun modo parteggiare per gli albanesi, bensì ne riconosce i crimini -fatto assolutamente palese nelle sue opere, in cui le critiche rivolte agli albanesi sono, appunto, molto ricorrenti-.

La giornalista serba ricorda allo scrittore quanto siano stati importanti per i serbi i monumenti culturali in Kosova e quanto dolore abbia causato l’incendio di questo patrimonio culturale.

A tal proposito Kadare afferma di aver condannato sin dal primo giorno questa mostruosa barbarie, anche perché non è stato solo un atto anti-serbo, ma anche anti- albanese, che ha aiutato a rafforzare l’idea di quanti ritenevano che gli albanesi combattessero per la religione, non per la libertà. Bisogna però riconoscere che il governo della Kosova ha ammesso questa colpa davanti a tutta l’opinione pubblica internazionale, rimediando con la ricostruzione dei monumenti andati in fiamme.

Esponendo la sua imparzialità di giudizio, fa anche riferimento a un altro caso, ossia quello del traffico d’organi, e chiede che i colpevoli di entrambi questi crimini vengano condannati. Ma – puntualizza lo scrittore- questa condanna deve avvenire nel quadro generale della guerra, perché sicuramente non vanno lasciate impunite barbarie come quella degli 800 bimbi, minori di 5 anni, massacrati brutalmente, per non parlare degli stupri e di altri crimini del genere.

Alla richiesta di chiarimenti su alcune accuse mossagli dalla stampa albanese riguardo il suo ruolo poco leale nei confronti della lingua serba, Kadare replica sostenendo di esserne a conoscenza, ma, se tali affermazioni razziste fossero state vere, di certo avrebbero potuto ripercuotersi sulla sua immagine internazionale di scrittore conosciuto in tutto il mondo. Inoltre egli spiega come il suo “affetto “ per la lingua albanese viene accentuato dalla censura che quest’idioma ha subito nella maggior parte della storia: ad esempio, la sua è stata l’unica lingua vietata con decreto dall’Impero Ottomano. Ma questo, ad ogni modo, non potrebbe in alcun modo influire sul suo giudizio e considerazione nei confronti delle altre lingue, come quella serba, che egli apprezza e reputa particolarmente adatta all’espressione letteraria.

Nella penultima domanda la giornalista serba si sofferma invece sui rapporti Albania – Grecia, in particolare su quanto abbiano influito in positivo o in negativo nella sua carriera, dal momento che nei suoi testi ricorrono molto spesso motivi antichi e, per di più, la sua opera sul teatro greco è stata tradotta in molte lingue.

Per quanto riguarda i motivi antichi nelle sue opere, questi rientrano nel ruolo costruttivo della letteratura in generale, anzi, sono un alleato dei letterati balcanici contro possibili incurvature moderne.

Nell’ultima domanda, infine, al letterato albanese viene chiesto se si attiene ancora a quanto aveva affermato durante una sua intervista passata riguardo la scrittura, naturalmente entusiasta, di un possibile testo elogiativo della poesia serba, come ha fatto con quella greca, che ammira moltissimo.“Mi attengo ancora pienamente a quell’affermazione- risponde Kadare- che forse potrebbe suscitare un’ilarità diffidente. Tuttavia rinnovo la mia affermazione di allora, e spero che in questa zona dell’Europa dominino finalmente la cultura e la civiltà europea. In tal caso, né la sua domanda né la mia risposta risuonerebbero sorprendenti.”


A cura di Daniela Vathi e Elena Carcangiu

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