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Gigi Riva: Un uomo libero nella schiavitù

 

Gli scrittori, sostiene Ismail Kadare, possono essere liberi in schiavitù o schiavi in libertà.

Perché la libertà per loro è interiore non sociale.

Con questa convinzione il grande albanese, ottantadue anni, uno dei massimi esponenti della letteratura contemporanea mondiale e più volte candidato al Nobel, ha attraversato in patria una feroce dittatura, un’incerta “democratura” (per usare la parola coniata da un altro intellettuale balcanico, Predrag Matvejević), prima di approdare, esule, in Francia.

Che fosse nella Tirana di Enver Hoxha o nella Parigi dei Lumi il suo campo d’esplorazione è sempre stato dunque l’animo umano, le sue pulsioni, le sue contraddizioni. E, centrale, un tema: l’insensatezza della guerra, la rassegnata accettazione di eventi catastrofici come fossero ineluttabili. Non poteva essere altrimenti per una persona nata in terra di conflitti.

Se non ha licenziato libri politici, Kadare li ha comunque scritti “politicamente”. Usando potenti metafore, traslando in altre epoche fatti e personaggi perché parlassero al lettore attento della contemporaneità, della miseria di una condizione di cattività prodotta da un’ideologia totalitaria così ottusa da ripudiare persino i legami con i “fratelli corrotti”, l’Unione Sovietica, la Cina.

La fama acquisita, riuscita a passare oltre l’invalicabile confine patrio, gli ha procurato se non la benevolenza almeno la neutralità di un regime sordo ai bisogni della gente e tuttavia incapace di rinunciare al fiore all’occhiello di un campione nazionale. Fingendo di non vedere l’assimilazione tra le tirannidi di un tempo e l’attualità.

Non manca mai, nei suoi racconti, il barlume di una speranza che induce a immaginare un futuro migliore, anche quando le superiori ragioni dei potenti riducono a parentesi piccoli e preziosi gesti di compassione, di pietas.

Succede, per esempio, in La provocazione quando tra due postazioni di nemici su una linea del fronte immersa nella neve, lontana e isolata dai comandanti, ci si accorda per lasciar passare la barella di una donna ferita. Poi, rituona il cannone ma quell’intermezzo indica una diversa opportunità.

Al pari di Brodskij, Kadare, come è evidente anche dal racconto che pubblichiamo in queste pagine, usa il registro dell’ironia per mettere in ridicolo l’assurdo delle leggi supreme calate dall’alto per invadere gli spazi più intimi, casa compresa.

L’assurdo in fondo altro non è se non una cifra della violenza. Se tanta feconda letteratura del Novecento, dai Balcani fino a Mosca, è nata sotto oppressione non è un caso.

 

La repubblica, 6 janar 2019

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