La poetessa albanese, Denata Ndreca, esce con il suo nuovo libro “Tempo Negato”
Il suo ricavato delle vendite andrà all’Associazione Invalidi Civili Para & Tetraplegici di Scutari, Shkodër, città dove lei è nata e cresciuta.
“La poesia di Denata, su questo non c’è dubbio, si sente forte. Come il cuore che vi batte dentro. E quante parole capaci di bastare a se stesse, parole come segnali di un sentiero che attraversa il bosco, a indicare la strada e promettere la radura dove si potrà riprendere fiato. Quanti versi essenziali, scolpiti con la sobrietà dell’arte consapevole che per dire bisogna togliere piuttosto che aggiungere: e per me che da sempre mi porto dietro poeti come Ungaretti è stato come ritrovarmi a casa”, Paolo Ciampi, scrittore fiorentino, giornalista e direttore di Toscana News
La pluripremiata poetessa albanese, fiorentina di adozione, esce con il suo nuovo libro “Tempo Negato”
Il suo ricavato delle vendite andrà all’Associazione Invalidi Civili Para & Tetraplegici di Scutari, Shkodër, città dove lei è nata e cresciuta.
Non c’è fine al mio stupore, al tuo tacerlo. Senti come mi batte forte il tuo cuore.
Ho appena finito di leggere questa raccolta di Denata, fotocopie che tra poco diventeranno il volume che vi troverete tra le mani. Indugio, faccio fatica a metterle via, avverto il desiderio di ritornare indietro. Buon segno: certe parole devono farsi eco che non svanisce, risacca che insiste.
Mentre sono a fare i conti con le emozioni, mentre cerco di spremerne qualche parola, mi ritornano questi versi di Wislawa Szymborska, una poetessa che mi tengo sempre vicina, quasi potesse venirmi in soccorso. Mi sembra che calzino a pennello anche per Denata: lo stupore, il silenzio, soprattutto il cuore che batte forte.
Non sono un critico letterario – per fortuna mi verrebbe da dire – tanto meno sono una persona capace di ragionamenti da esperto sulla poesia. Del resto per dirla con Jorge Luis Borges, la poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell’Universo. Bisogna sentirla, prima ancora che capirla. E la poesia di Denata, su questo non c’è dubbio, si sente forte. Come il cuore che vi batte dentro.
Ha idee chiare, Denata, su cosa debba essere la poesia: qualcosa di assai diverso da quanto ci hanno insegnato a scuola, con versi imparati a memoria e qualche nozione di metrica. Lei è poetessa perché non si limita al gioco di parole più o meno ricercato, non cerca l’artificio e l’effetto, non si accontenta della superficie, casomai della superficie indaga la profondità. Lo è perché gioca a carte scoperte ma senza sprofondare dentro se stessa, senza considerarsi ombelico del pianeta intero.
La poesia, credo voglia dirci, non è solo scrivere di sé, ma scrivere della realtà dopo averla filtrata attraverso di sé: che è cosa completamente diversa. Soprattutto la poesia è ponte, flusso di empatia, riconoscimento dell’altro. È vita, è modo di essere.
Dico questo e cerco di fare un altro passo dentro il mondo poetico di Denata. La vita, cioè il tempo. Forse tutti i poeti sono poeti del tempo, anche quando la loro poesia spicca il volo da ciò che è qui e ora. Però in Denata il tema del tempo raggiunge una particolare intensità, in tutte le sue varie declinazioni.
È il tempo delle stagioni e della vita, del silenzio e della parola, del ricordo e dell’oblio, dell’inverno e della primavera che segue sempre. Con un pensiero speciale per il tempo negato del titolo. Se solo potessi portare il tempo negato a chi ha perso, recita una delle sue poesie. Il tempo sottratto, il tempo che diviene prigione, il tempo che i destini della vita e i crimini dell’uomo impediscono di vivere con pienezza. Può essere una malattia che spezza una giovane vita, può essere il mare che inghiotte l’umanità in viaggio dei nostri tempi. Il tempo di Denata, allora, diventa voce di pietà, voce che domanda rispetto e riparazione.
Sì, questo è un punto importante e mi richiama alla mente ciò che Pablo Neruda affermava della poesia:
È sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina. Pace e pane: anche a parole così, che non sono slogan, ma piuttosto preghiera, accosto questo libro.
E quante cose dentro. Per la prima lettura mi è arrivato in fogli sparsi, che ho presto scompigliato. Mi è piaciuto non dover seguire un ordine, abbandonarmi al caso, alla divagazione, alla sorpresa.
E quante parole capaci di bastare a se stesse, parole come segnali di un sentiero che attraversa il bosco, a indicare la strada e promettere la radura dove si potrà riprendere fiato. Buone anche per interrogarsi sullo spazio bianco che separa l’una dall’altra.
Quanti versi essenziali, scolpiti con la sobrietà dell’arte consapevole che per dire bisogna togliere piuttosto che aggiungere: e per me che da sempre mi porto dietro poeti come Ungaretti è stato come ritrovarmi a casa.
Quante immagini potenti, tra queste pagine, momenti fissati come in una fotografia di autore. Per esempio la ragazza che scende dal treno, stazione di Campo di Marte. Piove, ma lei non porta l’ombrello. Ha gli occhiali da sole. Tutto qui, la ragazza alla stazione. Me la porto ancora con me.
E c’è il glicine che fiorisce e si fa respiro. C’è la città, a volte lieta e a volte sofferente a cui si sente di appartenere, Firenze oggi come Scutari prima. C’è il sogno di altri luoghi e c’è la tenacia delle radici. C’è l’amore e c’è inevitabilmente il relativo premio da pagare. C’è l’amnesia e c’è la nostalgia di un ragazza pazza che prendeva il treno solo per un caffè. C’è la mente che mente e c’è il bisogno di rammentare sempre che in ogni virgola si nasconde la felicità. C’è la voce che si fa grido, perché è finito il tempo di aspettare. C’è una strana allegria di naufragi. C’è la solitudine che può essere conquista. C’è la bellezza che è senz’altro riscatto. E c’è la cosa peggiore di tutte, l’indifferenza.
Mi fermo qui e penso a ciò che un altro grande poeta, morto troppo presto, diceva della poesia: Se non viene naturalmente, come le foglie vengono a un albero, è meglio che non venga per niente. John Keats non si riferiva alla fatica dello scrivere, da cui non si può prescindere, ma all’urgenza e all’autenticità di ciò che viene prima dello scrivere. Il cuore, ancora una volta.
Vorrei concludere con un’altra citazione, perché sono persona di citazioni, non mi imbarazza adoperare le frasi di chi sa spiegare le cose meglio di me: Non è un sogno, ma sognare da svegli. Così ragionava della poesia August Strindberg, il poeta e drammaturgo svedese.
Sì, qui potrei finire, giusto per invitarvi alla lettura.
Però dimenticavo, c’è anche un’altra cosa. Tra i tanti versi il verso più semplice. Ci sono.
Niente di più scontato, una frase da bambino. Ci sono. Eppure c’è tutto, dietro. C’è l’esserci davvero, non solo il proclamarlo.
Il resto è solo polvere e vento. Il resto è sorridere e metterci la faccia.
Paolo Ciampi, scrittore fiorentino, giornalista e direttore di Toscana News