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Maria Teresa Liuzzo, recensione & intervista

MARIA TERESA LIUZZO: “LA LUCE DEL RITORNO” a cura di Antonio Catalfamo

2 giugno 2023

Maria Teresa Liuzzo rinnova il suo impegno letterario con un altro romanzo: “La luce del ritorno” (A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria, 2022, s.i.p.). Non siamo in presenza di una scrittrice che si possa liquidare, come spesso avviene con tante altre che transitano nel campo delle lettere, con il classico «medaglione», vale a dire con alcuni dati biografici, un elenco di opere e di premi, un riassunto del contenuto e qualche estrapolazione di brani. Fare ciò significherebbe sminuire la Liuzzo, il suo spessore artistico e la portata della svolta che ha introdotto in questo nostro secondo Novecento così affollato di «minori», che sgomitano per trovare spazio, con l’ausilio di critici compiacenti, i quali cercano di dimostrare come tutti costoro abbiano portato un contributo, seppur minimo, al «canone» della letteratura contemporanea. Un’operazione di tal genere, fra l’altro, sarebbe sbagliata, perché la Liuzzo non rientra in nessun presunto «canone», costruito artificialmente ed artificiosamente dalla critica, né, per converso, cerca di affermarsi, come fanno altri ancora, ostentando un «anticanone», fintamente contestativo del «canone». C’è chi, infatti, per farsi largo, urla il proprio «impegno», contrapposto al «disimpegno» per così dire «canonico», piagnucola per essere stato «oscurato», tenuto ai margini. Ma il sogno proibito degli «anticanonici» per autoproclamazione è quello di essere “cooptati”, inseriti nell’esercito dei “questuanti”, dei “clientes”, per essere “tacitati” e gratificati con qualche piccolo riconoscimento.

Maria Teresa Liuzzo non fa parte dell’Italietta attuale, votata all’accattonaggio politico e letterario. Non chiede di essere “intruppata”, anzi trasforma la sua originalità, per noi indiscutibile, in una bandiera da far garrire al vento da sola, senza “spinte” e “puntelli”, senza sostegni che non siano quelli derivanti dalle doti artistiche che la natura le ha conferito e che lei ha saputo affinare lavorando non tanto di cesello, come gli orafi, ma con l’energia del fabbro che forgia e modella il ferro con il martello, mentre è ancora incandescente, sopra l’incudine, con una maestria che rimonta nei secoli, anzi nei millenni. Forza vitale e maestria artistica convivono nella sua opera, che solo i veri critici, come il suo conterraneo Antonio Piromalli, hanno saputo valorizzare, inserendola in quella letteratura meridionale, alla quale Gramsci, riferendosi a Pirandello, riconosceva, nell’ambito del panorama nazionale, una sua specificità e, addirittura, per certi aspetti, un primato.

Mi preme, allora, fissare su carta alcune novità che la scrittrice, a mio avviso, ha introdotto nel panorama letterario contemporaneo, che si presenta esangue, ripetitivo, privo di succhi vitali e di rapporto fecondativo con la realtà vera. Novità che, però, hanno lontane scaturigini, radici profonde nella migliore tradizione letteraria del passato. Da tempo medito su di esse ed ora trovo in quest’ultima opera importanti conferme.

Innanzitutto, questo nuovo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, così come i precedenti, che con esso costituiscono una serie, non è imprigionato dentro una trama, dentro gli orizzonti della “fabula”, dell’ “intreccio”, fissati dalle teorie narratologiche “consolidate”. Non siamo, dall’altro lato, di fronte ad uno sperimentalismo fine a se stesso, come se ne trovano tanti nella letteratura “togata”.

Si ripone, invece, una grande questione teorica e pratica: quella dell’unità di un’opera letteraria. Cesare Pavese se l’è posta a proposito dei poemi omerici e della propria opera, in versi e in prosa, ed ha trovato, sia nelle note che accompagnano l’edizione einaudiana del 1943 di “Lavorare stanca” sia nelle pagine così dense del suo diario, “Il mestiere di vivere”, soluzioni ch’egli stesso ha considerato provvisorie, destinate ad essere messe continuamente in discussione, ad essere superate e, nel contempo, ricomprese dialetticamente, ad un livello superiore, in altre. Pavese attribuisce centralità e funzione unificante ai «rapporti fantastici» sottesi alla realtà, che il poeta (e lo scrittore) deve cogliere e recepire nella sua opera. Siamo in presenza, per certi aspetti, della riproposizione di teorie estetiche simboliste, che lo scrittore langarolo negli anni successivi supererà di slancio, pervenendo, nelle opere narrative e negli scritti teorici della piena maturità (si pensi al saggio “Poesia è libertà”), a un «realismo simbolico» di matrice dantesca, fondato su un giusto equilibrio tra realtà e simbolo.

Ma io credo che il caso della Liuzzo sia più simile a quello dell’ “Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. Lanfranco Caretti ha sottolineato la «struttura aperta» del poema ariostesco, tutta «percorsa da una energia dinamica», conferita dal convergere in esso della realtà in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue passioni, tanto da poter affermare che il “Furioso” racchiude in sé «il senso libero, estroso, incalcolabile e inesauribile della vita». Nel romanzo della Liuzzo che stiamo qui esaminando si intrecciano vari eventi, che al lettore superficiale potrebbero sembrare slegati: si passa dalla realtà drammatica e, in certi momenti, brutale alla componente fiabesca, dall’amore vissuto con grande intensità all’odio viscerale che caratterizza determinati personaggi. Ma a conferire unità è la figura di Mary, che è con tutta evidenza proiezione autobiografica dell’autrice, la cui vita viene ripercorsa attraverso l’angolo visuale di una bambola, ch’ella ebbe da bambina e conservò per tutta l’esistenza come una confidente, ma pure un “alter ego”. Si noti qui l’originalità dell’ “espediente” narrativo, la sua suggestività, la tenerezza e il “pathos” ch’esso conferisce al racconto. Ma la scrittrice va oltre con la sua creatività narrativa. La vita di Mary viene ricostruita dopo la morte, anzi, diremmo, dall’angolo visuale della morte. E qui Maria Teresa Liuzzo si pone in linea di continuità con la migliore letteratura novecentesca, anch’essa estranea al «canone». Era, ad esempio, Cesare Pavese a voler raccontare e raccontarsi «come dopo morto», da una prospettiva che garantisce il necessario distacco per un’analisi razionale, talvolta impietosa. Ed è, per l’appunto, “impietosa” l’analisi che viene offerta, in questo romanzo, della travagliata esistenza di Mary, degli odi che permangono anche dopo la sua morte in capo alla madre e alle zie, degli amori che conservano, da un lato, la loro dolcezza e la loro passionalità, e, dall’altro, la loro contraddittorietà e, addirittura, la loro violenza.

Dicevamo della componente fiabesca che permette di accostare il romanzo della Liuzzo al “Furioso”. La critica più avveduta ha individuato il «nucleo genetico», il «centro ideologico», del poema ariostesco nel castello di Atlante e nel viaggio di Astolfo sulla luna. Nel “Furioso” chi si avvicina al castello di Atlante crede di vedere tutto ciò che ama ed agogna, ma l’illusione dura poco e la realtà si ripresenta in tutta la sua tragicità. Nel romanzo della Liuzzo lo stesso ruolo del castello di Atlante è rappresentato dal castello del Principe, popolato di elfi e di fate, «tra arcate di muschio, aiuole di corniola, smeraldo d’erba, e serpeggiare di ruscelli» (p. 120). Mia, da bambola di pezza, viene trasformata in una «bellissima bambina in carne ed ossa» (ibidem). Ma il romanzo si conclude con alcuni interrogativi inquietanti, che non trovano risposta: «Quale sarà il potere dell’energia della vita che muove i nostri gesti? Quale la giusta frequenza da intercettare? Rinascerà l’amore tra Raf e Mary nell’universo? Quale magica trama, seppur sotto sotto nascosta, attraversa le metamorfosi dell’infinito? Nell’eterno gioco della vita, sarà Raf più umano e più onesto? O rimarrà prigioniero degli orrori e delle afflizioni mentali?» (p. 121).

Dopo l’incantesimo, il mondo si ripresenta «grande e terribile», secondo l’ineguagliabile definizione di Gramsci. A dispetto dell’immagine «pessimistica» che è stata data da tanta parte della critica, pur autorevole, del Leopardi, nello “Zibaldone” egli rappresenta la natura nella sua «varietà», comprensiva delle sue contraddizioni, che coesistono: la gioia e il dolore, l’amore e l’odio, il razionale e l’irrazionale, il caldo e il freddo, il grande e il piccolo, il finito e l’infinito, il ponderabile e l’imponderabile. Così è la vita quale emerge da questo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, lungo il solco segnato dai grandi della letteratura, come il Leopardi stesso e l’Ariosto. Un ponte teso, dunque, tra passato e presente.

Il viaggio di Astolfo sulla luna, in sella all’Ippogrifo, per recuperare il senno di Orlando, rappresenta il tentativo di rimediare alla follia che domina la società cinquecentesca in cui vive l’Ariosto. Anche questo profilo riveste grande attualità nel mondo nostro contemporaneo e trova concretizzazione nel romanzo di Maria Teresa Liuzzo in molte pagine dedicate all’odio viscerale che, senza motivazione razionale, anzi in maniera irrazionale, si scatena contro Mary, figura di donna violata e pura.

Antonio Catalfamo

 

MARIA TERESA LIUZZO: “DANZA LA NOTTE NELLE TUE PUPILLE” a cura di Antonio Catalfamo

21 Maggio 2022

 

Nonostante sia presente da tanti anni nel mondo letterario ed abbia alle spalle una produzione notevole, dal punto di vista quantitativo e, insieme, qualitativo, Maria Teresa Liuzzo ad ogni nuova opera continua a stupirci, proponendo novità significative nei contenuti e nelle forme, pur mantenendo intatto il filo rosso che la lega a quelle precedenti. Così accade anche in questa nuova silloge di versi: “Danza la notte nelle tuepupille” (A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria, 2022).

Antonio Piromalli, nella prefazione ad una raccolta precedente, “Psiche” (Jason editrice, Reggio Calabria, 1993), ben descrive il meccanismo che sta alla base della poesia e della poetica della Liuzzo: «Non siamo solamente alla descrizione dei fenomeni (che non può mancare) ma all’interpretazione individuale di ciò che avviene nel teatro della storia. Anzitutto c’è una coscienza inquieta e ricca di dubbi. L’atmosfera è carica di timori, di ansie per il destino degli uomini nella loro storia mentre la “psiche” osserva (e patisce) la crescita della realtà nei suoi molteplici aspetti (spesso contrastanti), le tensioni verso il futuro» (p. 7).

Come al solito, Piromalli ha dato prova, se ce ne fosse bisogno, della sua acribia filologica, della sua capacità di condensare in poche righe concetti profondi, di cogliere l’essenza della poetica di un autore. La poesia di Maria Teresa Liuzzo è, infatti, sintesi tra realtà «oggettiva» e realtà «soggettiva»: la prima viene filtrata attraverso la seconda, per il tramite della ragione, che, però, è una ragione problematica, dubitativa, per nulla dogmatica e fondata su certezze e verità assolute, bensì relative, pronte ad essere sempre messe in discussione e superate in altre, anch’esse poi riviste e superate in un processo gnoseologico (e poetico) infinito.

Lo stesso avviene in questa nuova raccolta, ma con alcune novità. Non siamo in presenza di poesia «sociale», bensì d’amore. Ma opera lo stesso meccanismo compositivo e di poetica. E’ qui necessaria una precisazione. La poesia amorosa ed esistenziale, in Italia, in tutti i secoli, compresi il Novecento e questo nostro Terzo Millennio, ha pagato un prezzo troppo alto ai “modelli” delle origini della letteratura italiana, in particolare a Dante Alighieri ed alla sua opera, seppur monumentale. E’ prevalsa l’immagine dell’amore etereo, della donna «angelicata», simbolo dell’amore verso Dio, oggetto di venerazione da parte dell’innamorato. Questi “modelli” hanno subito, in più, un processo di schematizzazione e di conseguente banalizzazione, specie nel Novecento, fino ai giorni nostri, nei quali la poesia amorosa e, in generale, esistenziale assume spesso carattere dozzinale. Escono continuamente raccolte poetiche lacrimevoli, lamentose, che “fanno il verso” ai modelli originari, dando vita ad un sottobosco letterario che ci invade e pervade e che costringe il critico alla fuga.

Maria Teresa Liuzzo non appartiene a questo esercito di “imitatori maldestri”. Antonio Piromalli ne rivendica l’afflato novecentesco, e si riferisce, naturalmente, al migliore Novecento, a quello “laico”, libertario, fantasioso, talvolta “irriverente”. Ma la poesia della Liuzzo, segnatamente in questa raccolta, ha lontane e solide radici, che risalgono anch’esse alle origini della letteratura italiana, seguendo, però, filoni diversi da quello dantesco. Scrive il Petrarca in “Più volte già del bel sembiante humano”: «Mio ben, mio male, et mia vita, et mia morte». L’amore non viene visto più come tramite per il legame con Dio, ma come fonte di gioia e, nel contempo, di dolore, di vita e di morte. E c’è in Petrarca una nuova dimensione, «dubitativa», problematica, dell’amore, che rappresenta il «trait d’union» tra il “Canzoniere” e il “Secretum”, in quanto in quest’ultimo il sentimento religioso è vissuto anch’esso in maniera articolata, fondato sul dubbio, tutto da costruire, passo dopo passo. E la ragione è lo strumento che consente al Petrarca di filtrare la realtà per trasformarla in poesia. Una tappa successiva è costituita, nella nostra letteratura, dal Leopardi, dalla sua poesia nutrita di pensiero, dalla sua visione dolorosa dell’amore. Eppoi, nel Novecento, per l’appunto, Cesare Pavese, con le poesie de “La terra e la morte”, dedicate a Bianca Garufi, e di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, dedicate a Constance Dowling, dal titolo già molto esplicito, nonché con i “Dialoghi con Leucò”, laddove Leucotea è una divinità marina che dà la vita, ma anche la morte, così come ogni donna, nella visione del poeta piemontese. E’ questo l’«urlo del Novecento», l’ascendenza novecentesca della poesia di Maria Teresa Liuzzo, alla quale fa riferimento, probabilmente, Antonio Piromalli.

Nella raccolta della poetessa, che qui prendiamo in esame, c’è un’esplicita dichiarazione di poetica nella poesia “Indossare la luna e porre…”: «E scrivo perché / la stagione me lo impone, / l’anima lo richiede / e la ragione mi riporta in vita» (p. 13). Da questi versi emerge il ruolo della ragione come filtro che consente di trasfigurare e transcodificare la realtà in poesia. Ne nasce tutta una riflessione, che dà concretizzazione, per l’appunto, alla poetica di Maria Teresa Liuzzo. Un ruolo fondamentale viene esercitato dagli occhi, dalla vista, come ci dice il titolo della silloge, “Danza la notte nelle tue pupille”, così come la poesia eponima: «Il colore dei tuoi occhi / veste la solitudine dell’ora / e sgomitola la sapienza dei corpi // ombre di un desiderio mai dissolto, / sulle labbra come graffi di memoria, che geme / in lenzuola di geometrie allo specchio». Gli occhi dell’amato, certamente, che racchiudono tutto un mondo di affetti, che riemerge come memoria, ma, nello stesso tempo, gli occhi di chi ama e che, attraverso la vista, costruisce (e ricostruisce) dentro di sé l’immagine della persona amata, e questa vista costituisce il primo momento del processo gnoseologico, e, insieme, poetico della Liuzzo.

E qui emergono altre “ascendenze” letterarie, legate alla poesia italiana delle origini. Mi riferisco al filone averroista, rappresentato da “Donna me prega” di Guido Cavalcanti e mediato attraverso il trattato “De amore” di Andrea Cappellano. La vista genera una «cogitatio immoderata», una fantasticazione illimitata, sulla persona amata, considerata nella sua dimensione sia fisica che “spirituale”, come tale che determini in chi l’ama gioia, ma anche dolore, fino alla morte. Troviamo nei versi della Liuzzo immagini ossimoriche come «e la gioia del pianto / scioglierà il mistero» (p. 6). Questi versi sono dominati da una forte passione, che viene filtrata dalla ragione, come dicevamo, che ne stabilisce i reali connotati: »Non saremo l’ieri / di un desiderio bruciato, / ma vento e fiori / che sfogliano passioni, / la ragione che si stringe ad ogni parte / di noi nel nostro cercarci e scomporci» (ibidem).

E in questa ricostruzione razionale, l’amore è sì morto con la persona amata, ma, nello stesso tempo, rivive in mille configurazioni diverse, come amore carnale, certamente, amore che ritorna, al pari di quello di Ulisse, che soddisfa le voglie a lungo sopite della sua sposa, a riaccendere e a spegnere fuochi vitali: «Ma tu non temere / ch’io possa non attendere / il ritorno di Ulisse, e il sole / che colgo nei suoi abbracci, fedele nel cratere di un papavero. // Il letto vesto come sposa / allo splendore della luna, / giacché ti sento come brezza / che cresce e mai non declina / in questa smania di vita / fatta voce» (p. 5). Ma anche come sogno, come silenzio che lo prolunga nel tempo: «Brucia il silenzio / sugli altari della parola, / come un lampo di fiaba / dove continui a cercarmi / in ogni colore dell’attimo» (p. 4). Amore come ricordo, nella doppia dimensione gioiosa e dolorosa: «Raccontami / quando ti addormentavi / sul mio seno / e il sole tramontava / sui cuscini. / L’ultimo raggio in essi / trattenevo e colmavo / di quel pianto, / che non serrava / le porte alla speranza» (p. 11). E poi: «Parlami ancora, / tra dolci tempeste / smarrite nell’argento / delle sabbie. / Ci umilia la stagione / nel fiume della notte. / Se le distanze / non oltrepassano memorie, / ti trattengo / in lunghi battiti di cigli, / al dolce tepore di ogni perla» (ibidem). Amore che si scioglie nella natura, nei suoi colori, nei suoi odori, nei suoi sapori: «Siamo primavere innamorate / del miele dell’inverno, / germogli sempre nuovi di un amore / che orbita nella memoria dei sensi / e nell’oro delle spighe. / E tu sei qui, nel mio candore, tu, / odoroso di melagrana, aperto / alla luce della vita» (p. 7). E ancora: «Nascere / dove i ciliegi offrono corolle / ad albe sconosciute / increspate d’acque. / Essere vento, nettare, farfalla, / strada fiorita di trine colorate. / Miele di luna avvolga / ogni mia culla» (p. 14).

Emerge qui, infine, la dimensione «orfica» della poesia di Maria Teresa Liuzzo, legata a quel mistero che da millenni circonda, per l’appunto, i riti orfici, nel loro impasto inestricabile con quelli dionisiaci, sospesi tra la terra e il mondo inferino, e che sta alla base della poesia, con le sue lontane scaturigini nel mito di Orfeo. Questo mistero caratterizza la poesia di Maria Teresa Liuzzo e circonda, nel contempo, la sua figura così piena di fascino evocativo di una femminilità calabra, che affonda le radici nei millenni, novella Persefone sospesa tra mondo ctonio e mondo ipoctonio.

 

Maria Teresa Liuzzo… E adesso parlo!

A.G.A.R., Reggio Calabria, 2019; Non dirmi che ho amato il vento! , A.G.A.R., Reggio Calabria, 2021 a cura di Antonio Catalfamo

17 novembre 2021

La letteratura italiana è in crisi da parecchio tempo, tanto che nel 1997 gli accademici di Svezia dovettero conferire il Premio Nobel per la Letteratura a un drammaturgo come Dario Fo, perché evidentemente ritennero che non ci fosse in Italia un “letterato puro” a cui assegnare l’ambito riconoscimento. Questa crisi non deriva tanto dalla «struttura» (intesa marxianamente come base economica e sociale), in quanto essa può servire, anzi, nei suoi momenti di difficoltà, a far emergere una “letteratura di denuncia” dei mali della società, quanto dalla «sovrastruttura», cioè dalla decisione delle grandi case editrici, in mano ai monopolisti dell’informazione, di privilegiare una “letteratura di evasione”, con lo scopo di narcotizzare la collettività del lettori, puntando, ad esempio, sul «genere» (o «sottogenere») «giallo» (o «noir») o «rosa» (vale a dire sul libro che si legge in un’ora sulla spiaggia o la sera, a letto, prima di prendere sonno), oppure sulle «saghe» delle grandi famiglie, che hanno avuto successo nella vita partendo dal basso, per creare il mito della ricchezza anche nei poveri, oppure ancora su romanzi falsamente «storici», che, prendendo spunto dalle vicende personali ed esistenziali di alcuni soggetti, seguiti nella loro formazione, tratteggino la storia sociale che fa da sfondo e che, per l’appunto, rimane in secondo piano, a caratteri sfumati, con lo scopo di costituire una sorta di “specchietto per le allodole” o di “carta moschicida”, cioè di attirare il lettore di varia età ed estrazione sociale, il quale si riconoscerà nostalgicamente in questo o quel periodo (il Sessantotto studentesco, il Sessantanove operaio, gli anni del terrorismo e degli «opposti estremismi», ecc.), omettendo il «punto di vista» dell’autore, sul piano della «focalizzazione», o, meglio ancora, escludendo oculatamente ogni «punto di vista», in modo che ogni lettore si senta protagonista e, in un certo senso, “coautore” del libro, e lo recepisca come meglio gli aggrada, trovando magari in esso motivi di autogiustificazione.

Queste sapienti «strategie comunicative» tagliano fuori dal grande (per dimensioni, non per qualità) mercato editoriale numerose opere letterarie di valore (etico ed artistico), che rimangono marginalizzate, affidate alla generosità di piccole case editrici periferiche, che non hanno la forza di farle arrivare nelle vetrine delle librerie su una vasta area del Paese. Tutta una letteratura, che attinge specialmente ai succhi vitali del territorio, e che, in tal senso, definiamo «regionalista», viene confinata al “passaparola”, allo slancio volontaristico di chi ama veramente la cultura e si impegna a farla circolare seppur in circuiti ristretti. Così sembra finita la «letteratura meridionalista», che ebbe il periodo di massima affermazione negli anni del «neorealismo» e, poi, dell’«impegno».

Una delle “vittime sacrificali” di questo “gioco al massacro”, è, a nostro avviso, Maria Teresa Liuzzo, radicata nella sua Calabria, che ha deciso di autoprodursi, dando vita ad una piccola casa editrice, A.G.A.R. di Reggio, con la quale stampa i suoi libri di poesie e di narrativa, compresi gli ultimi due romanzi, che fanno parte di una programmata «trilogia» in via di completamento: … E adesso parlo! (2019); Non dirmi che ho amato il vento! (2021). Siamo in presenza di «romanzi di formazione», incentrati sul mondo dell’infanzia sofferta, vissuta in terre desolate e condannate all’arretratezza culturale da tutta una serie di scelte storiche che costituiscono, nel loro insieme, la plurisecolare «questione meridionale», sulla scia della migliore letteratura calabrese: La teda (1957), Tibi e Tascia (1959), Il selvaggio di Santa Venere (1977) di Saverio Strati e, soprattutto, La ragazza del vicolo scuro (1977) di Mario La Cava.

La specificità è rappresentata, innanzitutto, dal fatto che l’autrice di questi due romanzi è una donna, una di quelle donne di Calabria che dimostrano di avere, al di là dell’apparente fragilità e ritrosia, una forte tempra di combattenti, in un mondo dominato dal maschilismo estremo, una grande ricchezza interiore, una poeticità naturale che, poi, si trasfonde con perizia in arte. Possiamo dire che Maria Teresa Liuzzo si muove lungo la strada segnata da figure come Alba Florio (Scilla, 1910 – Messina, 2011), poetessa calabrese sottostimata dalla critica “togata” (ed oggi, purtroppo, quasi dimenticata), scoperta nel suo reale valore poetico da Antonio Piromalli, che, non a caso, ha voluto assegnare, nel 1993, alla Liuzzo proprio il Premio intitolato all’illustre conterranea. La Giuria era costituta, in quell’occasione, da autorevoli studiosi: oltre a Piromalli, Mario Sansone, Giuliano Manacorda, Lucio Pisani, Toni Iermano. Lo stesso Piromalli ha incluso la Liuzzo nella sua monumentale Letteratura calabrese, procedendo, in tal modo, ad un’attività di storicizzazione e classificazione della sua opera.

Ai caratteri della «poesia solitaria e drammatica» (la definizione è di Piromalli) della Florio sembra proprio ispirarsi Maria Teresa Liuzzo nei suoi versi e anche, per quel che ci riguarda più da vicino, nei due romanzi in questione. Protagonista di questi ultimi è una bambina, Mary, che già all’età di cinque anni scrive poesie e vive in una dimensione poetica la sua tragica esistenza, contrapponendo questa ricchezza interiore a un mondo cinico e crudele, che è quello del paese calabrese in cui è nata ed è costretta a vivere, ma è anche quello familiare, che rappresenta una sorta di «microcosmo» nel quale si riproducono tutte le brutture del «macrocosmo», costituito, per l’appunto, dall’ambiente sociale paesano.

Maria Teresa Liuzzo rinuncia programmaticamente al mito, coltivato dal suo conterraneo Corrado Alvaro, di una «necessaria realtà contadina ricca di valori» (Antonio Piromalli) e descrive il mondo paesano in tutta la sua istintiva violenza, nella sua brutalità, primitività e bestialità, quasi fosse una proiezione della dimensione del «selvaggio», del barbarico, dell’irrazionale, presente, secondo il Vico, lungo il percorso esistenziale dell’umanità. La scrittrice si discosta dalla rappresentazione idillica del mondo contadino che ha nutrito tanta letteratura, non solo meridionale, accostandosi, per converso, ad opere che sono espressione di altre aree geografiche, come Paesi tuoi (1941) di Cesare Pavese e La malora (1954) di Beppe Fenoglio. Ricordiamo, in particolare, che nel citato romanzo pavesiano il protagonista, Talino, ha un rapporto incestuoso con la sorella Gisella e la uccide piantandole un forcone nella gola. Tutto il mondo contadino langarolo descritto da Pavese in Paesi tuoi, così come quello de La malora fenogliana, è dominato da una cieca violenza istintiva e primordiale.

Lo stesso accade nei due romanzi della Liuzzo, a partire dal primo. Mary si trova a vivere in una famiglia dissestata, nella quale il padre non fa altro che dilapidare il patrimonio. Su di lei, a cinque anni, ricade la responsabilità di crescere i fratelli più piccoli. Si trasferisce presso parenti e qui subisce ogni tipo di violenza fisica e morale. Trova un’alternativa alla società belluina da cui è circondata nella poesia e nella religione. Lei stessa rappresenta, pur essendo una bambina, alternativa etica a quel mondo. Troviamo, dunque, nei due romanzi della «trilogia» sinora usciti quella dimensione della «moralità» (Antonio Piromalli) che caratterizza la letteratura calabrese nelle sue forme migliori, ma questa moralità non è quella collettiva, immaginata da Saverio Strati come componente fondamentale del mondo del lavoro, che, facendo leva su di essa, si autocandida a soppiantare il sistema di potere e di sfruttamento esistente in una Calabria semi-feudale dominata dal padronato, che disconosce i diritti elementari dei lavoratori, bensì la moralità individuale, che la piccola Mary ritrova dentro di sé. Una moralità che è, per l’appunto, individuale, ma non privata, in quanto la bambina, e poi la ragazza, nel prosieguo della trama narrativa e nel passaggio al secondo romanzo della «trilogia», propone di fatto, con gli stessi comportamenti, questa sua dimensione etica come esempio da seguire a tutti gli altri. La «religiosità» di Mary è in linea con quella oggi portata avanti, con spirito «neofrancescano», da papa Bergoglio, che invita l’umanità intera a fare proprio il messaggio del «santo poverello» di Assisi per cambiare in meglio la società, seppur facendo leva non su strumenti di lotta politica e sociale, bensì di natura etica. E qui l’opera letteraria di Maria Teresa Liuzzo finisce per saldarsi con la letteratura religiosa che, all’insegna del «neofrancescanesimo» di Bergoglio, sta facendosi lentamente strada, attraverso poeti e scrittori come Elena Bartone, anche lei calabrese (trasferitasi al Nord per motivi di lavoro, ma orgogliosa delle proprie radici), anche lei tenuta ingiustamente ai margini del mondo letterario “ufficiale”, anche lei autrice di una «trilogia», questa volta in versi, dedicata a San Francesco: Francesco, nel silenzio (2015); Apostrofi di gioie sovrumane (2020); Con gli occhi di un povero. Poesie su san Francesco di Assisi (2021). Questo filone va tenuto sotto osservazione dai critici più avveduti, perché, nell’ambito della sterilità generale della letteratura italiana contemporanea, assieme a quello dei «poeti operai» (Fabio Franzin, Matteo Rusconi), è tra i pochi veramente fecondi, gravidi di presente e, ancor più, di futuro.

La religiosità di cui è portavoce Maria Teresa Liuzzo, attraverso il personaggio letterario di Mary, è quella popolare, una religiosità elementare, ma fortemente sentita, radicata nell’«io», che ha lontane scaturigini, ctonie ed ipoctonie, nell’animo delle persone buone, che, di fatto, costituiscono un’alternativa etica al «mondo vile ed infernale» (per dirla con Cesare Pavese) che le circonda. E’ stato osservato da una parte della critica il legame che esiste nei romanzi della Liuzzo tra religiosità e sentimento poetico che fa da sfondo, nonostante si tratti di opere in prosa. Il legame tra religione e poesia non è casuale, rimonta nei secoli, ed è proprio della cultura popolare. Giuseppe Bonaviri, in un’intervista, ha ricordato che al suo paese, Mineo, c’era una rocca, chiamata la «Pietra della poesia», davanti alla quale nei secoli si incontravano i poeti popolari per recitare i loro versi. Bonaviri dice che si tratta di uno dei luoghi «mitici» in cui il mondo terreno è collegato a quello sotterraneo, dal quale promanano onde gravitazionali che generano benessere spirituale per gli uomini (e ispirazione poetica), tanto che in questi luoghi spesso sorgono i templi o le chiese.

Certo l’opera letteraria di Maria Teresa Liuzzo dimostra abilità tecnica, conoscenze “professionali”, capacità di usare le regole della «narratologia», di procedere alternando «prolessi» ed «analessi», di intrecciare i piani narrativi, pur nell’ambito di un andamento perlopiù paratattico, ma al fondo sta questa religiosità pura, semplice, espressione di poesia spontanea, cristallina, limpida, che è radicata nell’animo popolare e che ha una dimensione «mitica», che sprofonda nel «mistero».

Vogliamo, infine, evidenziare lo spessore psicologico di cui l’autrice ha dotato il personaggio di Mary, che le ha permesso di non rimanere prigioniera del «bozzettismo», che rappresenta un limite a cui non ha saputo sottrarsi lo stesso Corrado Alvaro, al pari di tanti altri scrittori meridionalisti e regionalisti, in quanto quello che viene considerato il suo capolavoro, Gente in Aspromonte (1930), risente del «naturalismo», per l’appunto, bozzettistico che inficia la letteratura «realistica» italiana degli anni Trenta del Novecento, al quale ha saputo, per converso, porre rimedio, nelle sue forme migliori, il «neorealismo» letterario dell’immediato secondo dopoguerra, anche per la sua capacità, in autori come Pavese, di innestare il «mito» sul ceppo della «realtà». (Enzo Siciliano).

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