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Il divenire è un tramontare: “E adesso Parlo”

Di Chiara Ortuso

Il cuore ricolmo di vermi e “la rugosa realtà da stringere”annunciail decadente Arthur Rimbaud, profeta di una caustica ed estatica dissoluzione valoriale, nella sua “Stagione in Inferno”, ritratto della simbolica caduta nell’oscuro baratro dell’illusione di vivere. Di un esistere incapace di riconoscersi nella sua essenziale umanità, in una insignificanza che traspare da ogni piega, dai cunicoli scavati dalla falce del dolore. Ed è un destino di sofferenza, un divenire assordante che avvolge, quale cappio di miseria, il respiro di chi soggiace ai pericoli mortali della sopraffazione morale e fisica, il messaggio sotteso all’urlo tacito di “E adesso parlo”, struggente opera in prosa, ricolma tuttavia di sprazzi di sublime ed elevata lirica, della poetessa e critica letteraria Maria Teresa Liuzzo.Così, mediante il selciato di una scrittura capace di penetrare visceralmente nei meandri di ogni non detto, di ciascun violento silenzio, il lettore viene catapultato tra gli anfratti della lacerante storia di Mary, bambina dal vissuto violato e annichilito, spirito dall’infanzia negata, coscienza dall’intimo segreto rubato, svilito, vilipeso. In bilico tra apollineo e dionisiaco, tra razionalità e conturbante, tra la luce della speranza svelatasi nel sentimentale sogno di amore, personificato dal volto salvifico delsocratico daimon, della sua coscienza, di quell’angelo buono chiamato Raf, e l’inganno della notte che procede, incalzando tra mille insulti di sangue, dalle macerie di un covo familiare ricolmo di “anime morte”, citando Gogol’, la protagonista del testo continua la sua angosciante richiesta di significato dinnanzi ad una Weltanschauung (visione del mondo) sempre più tormentosa, solipsismo chiuso tra le pareti del nulla. E, malgrado ciò, lungi dalla comprensione di un’umanità che appare, come nei romanzi di F. Dostoevskij, incline per sua stessa natura alla “banalità del male”, (direbbe HannahArendt), Mary si affaccia alla sorgente della speranza per mezzo della scrittura, quello iato, quello spazio soleggiato in grado di squarciare il velo di orrore che circonda i passi aggraziati di una fanciulla in fiore. Comporre, creare su pagine bianche innumerevoli segni indelebili diviene terapia, una cura capace di guarire, come la filosofia in età ellenistica secondo i dettami del pensatore Epicuro, “i mali della psiche”. In tal modo l’accettazione di una ferita che continua a bruciare l’essenza, la singolarità di un istante, di tutti gli attimi, il palpito di ogni decade, conduce la ragazza alla bellezza della fede, a quella dimensione di compenetrazione in uno spasimo di spiritualità che si sostanzia nel “credo ut intelligam e nell’intelligo ut credam” di agostiniana memoria. E il bisogno di comprensione, la necessità di conoscere l’intimo mistero del grido di Giobbe, si squarcia nell’oasi liberatrice del perdono e della verità, lontano da un relativismo materialista e astratto che rende soggettivo e unilaterale il bisogno di rimanere attaccati alla propria egoistica esistenza, aprendosi ad uno sguardo compenetrante capace di abbracciare, panteisticamente parlando, tutto il creato. Così in uno scintillio di tramonto, Mary risorge dalla polvere delle sue lacrime spingendosicon il candore del suo sorriso oltre la coltre dell’immensità.“L’eternità è il mare andato via col sole” (A. Rimbaud).

 

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