DOMENICO CATALFAMO: LA POESIA DEL VIVERE QUOTIDIANO
Domenico Catalfamo, nato a Bafìa di Castroreale (provincia di Messina), nel 1937, è stato per lunghi anni docente di materie letterarie nei licei e vice-sindaco del suo paese natale. Ha collaborato con poesie e scritti critici alla rivista «Realismo lirico», diretta da Aldo Capasso e stampata per i tipi della prestigiosa casa editrice Ceschina di Milano, che, fra l’altro, ebbe il merito di lanciare scrittori come Riccardo Bacchelli, Giuseppe Marotta, Leonida Repaci, e di pubblicare I Sanssôssì (Gli spensierati) di Augusto Monti. Alla poetica del movimento del «realismo lirico», che fu fondato dallo stesso Capasso e diede il titolo alla suddetta rivista, fautrice di una poesia che rispecchia il vivere quotidiano dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo reale, Domenico Catalfamo si è richiamato in maniera originale nei suoi versi.
Le strade di ieri
Il lunedì partivo
col mio zaino di studente,
e mi inseguiva sulla provinciale
l’ansioso richiamo di mia madre.
Presa una strada fuori mano,
avanzavo prudente,
fra case operose
incassate tra i monti.
Il vocale
melodioso del merlo
dominava la valle,
in un duetto
perfetto
con l’usignuolo.
Di volata mi ritrovavo
sul greto di sassi.
E il mugnaio,
davanti al mulino,
col suo volto luciferino
mi salutava.
Poi, non visto, salivo
i gironi del colle,
per riemergere ansante
nella gloria del sole,
nei coltivi un sorriso di viole
e negli occhi il colore
dei ciclamini.
E laggiù,
come nate dal mare,
le isole favolose del dio,
appena disegnate
nel tenero azzurro del cielo,
e il mio umile entrare
sulle strade di ieri,
aspettando, palpitante,
il domani.
Corpo e sangue
Ti ricordo, nonno,
reduce dai monti,
il viso scavato
ed i capelli grigi,
i panni male asciugati
al focolare.
Sulla porta di casa
mi porgesti
il bianco pane
che a te stesso forse
e alla nonna
togliesti di bocca.
Pane prezioso,
in quegli amari tempi,
che custodivi tra le carni
e la camicia lisa
di pastore.
Dare non mi potesti
il vino del tuo sangue,
fatto acqua
nel corpo piagato.
Ora sei in me,
nonno,
col tuo cuore disperato,
di cristo bestemmiatore
senza peccato.
Novene
Si usciva,
nei mattini di dicembre,
nelle strade ancora buie,
col nero senza stelle
del cielo.
Fasci di cannucce accese
ci facevano luce.
Chi saliva e chi scendeva
lungo i sentieri di capre.
Ci accoglieva in chiesa
il viso sanguigno
di un re pastore,
omerico suonatore
di ciaramella.
Festoni vivi di arance
e lume incerto di candele
per il rito
pagano-cristiano
della nascita.
Lì fuori era morto,
tra i poveri giochi di guerra,
il mio amico Natale.
Cimitero di campagna
Discendo con la brigata
che mi accompagna assorta
per la ripida via che porta,
con soste e riposi di mare,
di acque leggere,
di ulivi,
di rosse foglie
e di frutti tardivi,
a un cimitero di campagna,
cinto di castagni
secolari.
Mi giunge al cancello
il saluto
di quelli che furono,
la desolata ma forte
lezione dei morti.
Varcato il cancello mi addentro
tra i vicoli stretti
di questo paese di tombe,
di volti,
e mi si presenta una storia
che mi appartiene.
Mi fermo un momento e rileggo
parole di tanti anni fa:
“Ti portò via
vento di bufera,
e rivivrai
col profumo delle viole.
Il calore della mamma
ti darà la vita del ricordo,
e le nostre ansie
cresceranno come spighe
per te”.
Poi lento riprendo
le tappe del viaggio votivo,
e, tutto sommato, ritrovo
la saggia ragione del vivere.