MARIA TERESA LIUZZO, L’USO DELLA METAFORA
Pasquino Crupi
COME NELLE PAGINE ALTE DEI LIRICI DEL CINQUECENTO
Non si può davvero negarlo e non si può essere decisamente felici: una folla di poeti, custodita dalla cintura di castità di caffè letterari e congreghe autolimitàntisi, assiepa la Calabria, bussa querula a tutte le porte e, da tutte o quasi tutte respinta, grida contro le pellegrine penne del Nord, che misconoscono il genio del Sud ove limoni e liricità nativa si fanno si fanno dolce e profumata compagnia. Per difendersi, anche costà, dalla ciurma, non rimane che il silenzio del critico.
Maria Teresa Liuzzo, però, merita che questo silenzio sia spezzato. Ella non fa parte della folla vociante, ed è fatto, questo, non bene avvertito dal redattore della terza di copertina della silloge liuziana Psiche (Jason R.C. 1993,L.30.000). Non servono a dare un’idea della novità e della forza di Maria Teresa Liuzzo la enumerazione dei premi ai quali ha partecipato e dei quali è stata insignita. Non i premi, ma la radicalità nuova della sua poesia svettano al di sopra del mesto panorama poetico.
Maria Teresa Liuzzo, che, come Calogero e Alba Florio dà segno felicissimo di un io, frequentemente insistit, che raccorda emozioni, sensazioni, urti e conflitti.
Ma attenzione: l’Io della Liuzzo non è giocato e giostrato da regressive acrobazie di un narcisismo, che, mentre asciuga il tempo presente, appena palpabile, propone, con urtante flaccidità residua, le lacrime cardiache della poetessa, la quale non sa altro che piangere e non fa altro che piangere, assorta in quella maniacale impotenza, che ha nome di onirismo.
Esattamente il contrario. L’Io frequente e, se non proprio onnipotente, onnipresente della Liuzzo è un Io immerso nelle viscere ammalate della storia. Conosce le scudisciate della differenza – penitenza e la schiavitù organizzata dagli spiriti. E’ grazie a questa condizione che la Liuzzo può riscattare il suo Io dettante da impotenza e da monotonia. Difatti l’osservazione costante del mondo peggiore richiede lo scatto verso un mondo maggiore, verso un mondo migliore.
E nell’affrettarsi, perché l’angoscia è grande, verso il mondo maggiore e migliore, la poesia della Liuzzo conosce un collasso quasi un infarto, certamente una frattura e un capovolgimento: l’Io frequentemente insistito, introspettivo, che si ritrae dalla superficie rugosa della società alla profondità non spianata del cuore, aperto da lunghe ferite per accoglierla, si trasforma in Io visionario. O, se volete, generatore di utopia, ancorché la Liuzzo ci tempesti con l’eutanasia dell’utopia.
Crisalide marcì / nel labirinto / dei saggi / Mentre fuori / coetanea / innocenza correva / spensierata frotta / radiosa scia / un paradiso di sole! ( Eutanasia d’utopia, pag. 147 ). Ed è operazione, questa, non riuscita né ad Alba Florio né al Calogero. Quest’ultimo non tentò mai di uscire dal suo Io, ammalato di un estremo circolo vizioso, l’altra, quando disse la realtà sociale, si immerse in mezzo agli altri.
E’ tutto. O sarebbe tutto se non mi rimanesse da dire, in poche parole, della delicata e difficile operazione linguistica della Liuzzo. E’ riconoscibile ictu oculi che la giovane poetessa compie un esercizio linguistico, che si muove con sapienza dentro la lezione ermetica.
Ma su questa innesta – ecco la novità, straordinaria – un uso insaziabile della metafora, per come è nelle pagine alte dei lirici del Cinquecento. Tanto per fare un solo nome: il calabrese Galeazzo di Tarsia al quale furono debitori Foscolo e Leopardi. Tradizioni e novità, dunque, ovvero l’originalità di Maria Teresa Liuzzo, che già mi aveva favorevolmente sorpreso con altro volume di poesia, Radici (1992).
Pasquino Crupi ( Storia della Letteratura Calabrese- Autori e Testi Ed. Periferia 1997, vol IV- pag.191- 192)