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Peter Rusell: Maria Teresa Liuzzo, l’ultimo dei grandi moderni

 

 

PREFAZIONE DI PETER RUSSELL 

Teatro Comunale F. Cilea di Reggio Calabria (Italia). Peter Russell premia la Poetessa Maria Teresa Liuzzo 

Robert Graves scriveva (in Collected Poems – 1975 – p.175 ) che le poesie devono essere “i resti orgogliosi di una razza ‘visionaria'” che evidenziano purtroppo, secondo William Butler Yeats, (Ideas of Good and Evil, 1903, pag.176 ), ”quel lento morire del cuore che gli uomini chiamano il progresso del mondo”.

In ciò consiste il punto più saliente della poesia di Maria Teresa Liuzzo. Essa, infatti, promuove un confronto, faccia a faccia, con la natura universale e con la natura umana: un’appercezione diretta della vita come esperienza vissuta e sentita che I. A. Richard definisce ”radicalmente naturalistica” (come per ”La terra Vana” di Eliot); ma la nostra poetessa riesce a fare a meno di tutto quell’apparato dell’occulto e dell’arcano che agli albori del modernismo furono così cari a Eliot, Pound e Yeats.

Nella poesia della Liuzzo non troviamo personaggi della storia, bensì la nostalgia del passato. Tutto il passato è già presente, non ha bisogno di essere dettagliato e classificato. La stessa cosa si potrebbe dire della religione. E’ già tutta presente implicitamente; non c’è bisogno di spiegare la secolare evoluzione della credenza cristiana.

Abbiamo il soggetto: la poetessa che osserva tutto, e abbiamo l’oggetto, le natura e l’umanità, le cose osservate che una volta presentate come immagini diventano metafore, anziché segno o simboli di questo o quello. Si ha la sensazione o almeno l’illusione che la distinzione fra realtà o apparenza è stata annullata.

Le cose stanno così non c’è da discutere.

…In un certo senso la poesia della Liuzzo è come recita il titolo di una sua poesia, un ” Universo di croci”.

Per la gente superficiale ciò potrebbe essere meramente ”deprimente” (come i giornali!). Ma le poesie della Nostra sono ”open -ended”, cioè aperte a tutti gli opposti, alle due estremità…

…Le lacrime rerum della Liuzzo non sono personalizzate: sono le lacrime di tutta l’umanità… Ogni sua poesia è scritta in prima persona per le immagini che sovrastano la sua psiche, la sua spiritualità, immagini relative ad aventi vissuti, sofferti.

I letterati, gli accademici, i teorizzanti dei canoni della composizione poetica non capiranno mai ciò, perché credono, da postmodernisti quali si ritrovano che il linguaggio sia la misura del tutto.

La poesia della Liuzzo, per qualche aspetti – ma certamente senza averne subito l’influenza letteraria – ha qualcosa in comune con quel Walt Whitman evocato da Dino Campana.

La poetessa ha un curriculum vitae impressionante anche se non colloquia direttamente con la gente.

Se la preghiera è parlare con Dio o se la contemplazione è il conversare con gli Dei, la poesia della Liuzzo forse è un discorrere con il mondo. Ogni poesia non ha un preciso destinatario. Per la Liuzzo ciascuna poesia ha la propria identità e i propri confini. Si potrebbero cancellare i titoli di tutte le liriche che compongono la silloge e presentare il tutto come una unica trama.

Si perderebbe, forse, qualcosa puramente artistica, ma si avrebbe una visione più ampia, più completa di ciò che si vuole rappresentare, di ciò che il poeta vuole dire.

Lo scopo principale della poetessa Liuzzo non è la vanagloria di una poesia individualmente riuscita i ”canoni accademici”, quanto una comunicazione intensa con il mondo esterno, anche se corrotto e abbrutito dagli uomini.

I pochi riferimenti alla religione (Dio, peccato, ateo), non sono dogmatici.

Il vescovo di Pistoia in un suo articolo (pubblicato nel 1995 su ”la voce dell’anziano”) ha scritto “che non si può avere la religiosità senza la poesia, né la poesia senza la religiosità”!

Non c’è niente di dogmatico nelle idee della Liuzzo sulla poesia, ed è in questo segno che bisogna interpretarla: ”open – ended”; chi non ha nessuna religione apprezzerà la religiosità di questa raccolta,

Per molti la religione è superstizione. Ma noi diciamo che la religione consiste, forse, nelle idee antiche, superstiti del passato.

Idee o immagini che necessariamente comprendono le giuste emozioni. L’idea senza emozioni è una cosa puramente intellettuale e non ha niente a che fare con la poesia. Per me la poesia di Matia Teresa Liuzzo è una catena montagnosa di idee e di immagini. Un baluardo di ispirazioni; una muraglia di protezione. Guardiamo più da vicino questo prezioso testo:  “Io: / tutto e niente! / Nuvola mi ritrovo / tra gli alberi / del cosmo divino / in questa umana giungla / di sogno e di veleno! / ”Vivere l’inesplicabile” ( pag,116 ) / o, forse in contrasto, da ” E’ sera” ( pag.50 ): / Non concede trattati l’eterno: / la disumana sorte / acceca la speranza, / e l’erba desta affonda / dove regola di gioco / si esibisce oscena”!

Invito il lettore a condividere il mio interesse per questa opera di poesia. C’è molto con cui non sono d’accordo, anzi, che non credo, ma questo non importa. Non credo con Dante che Aristotele stia nel limbo; Paolo e Francesca nell’inferno o che Bertrans De Born porti la sua testa come una lanterna. Tutto ciò non toglie che da sessant’anni io esperimenti e considero la poesia di Dante quale la più grande del mondo. Se per me l’angoscia della Liuzzo non si identifica con le lacrime rerum Virgiliane, corrisponde tuttavia coi sentimenti di tanta gente onesta e seria di oggi. Sono cose vissute, fatti della vita. Sono verità e lo sono per tutti, non solo per i poeti. Chiamerei la silloge ”Umanità”: Persephone” in Ade, una Persephone del Novecento. Consta di una descrizione dello stato dell’anima dell’uomo moderno. Lo spirito o intelletto (novus, nella terminologia di Platone o dei Padri della Chiesa) è per la maggior parte assente. Il corpo, nel senso del corpo fisico della poetessa, è ugualmente assente. Ma gli oggetti sensoriali del mondo, i fenomeni a tutti conosciuti sono concreti e presenti anche se generalizzati. Siamo nel mondo della Psiche, se non della psicologia patologica. Questi oggetti sono progettati come una pletora d’immagini: immagini che sono forse più di immagini, ma, forse, meno di simboli: “Piombarono le ali del destino / mausoleo d’immagini / dove crollò logica / il suono d’apatia”. (”Il cuore delle rose”, pag. 60) Il critico romeno, Romeo Magherescu, dell’Università di Craiova, nella prefazione al volume Apeiron (altra opera della Liuzzo) ha detto con buona ragione che questa poetessa è ” estranea al canone tradizionale” della poesia moderna. Con questo il Magherescu non ha inteso dire che questa poesia è di vecchia moda, ottocentesca o cinquecentesca che sia, perché è ugualmente estranea ai secoli passati come al presente. La Liuzzo non è dell’avanguardia, non è neo – Pascoliana, o Carducciana; non è realista, né neo- realista. Non è introspettiva, né metafisica e non è neanche ”ermetica” (anche se ci sono rari echi lontani forse di Ungaretti) La ”categorizzabilità” di un poeta non è mai stata un criterio di qualità politica (se non tra i gruppuscoli parassitici dell’Accademia). Infatti la Liuzzo pur non facente parte di nessuna ”scuola” risulta lo stesso poetessa contemporanea considerevole. Il fatto è che la dissoluzione di tutti i generi delle arti tradizionali che rappresenta il nodo del ”modernismo”, ci hanno portato di grado in grado ad un concetto sempre più ristretto dell’arte stessa. Siamo giunti al vicolo cieco del ”minimal art”. O dobbiamo tagliare la corda, o dobbiamo espanderci di nuovo in una umanità più ampia. La Liuzzo è arrivata già da vent’anni. E questo è quasi incredibile perché questi venti anni rappresentano i decenni di trionfo (o tronfio? del ”post-modernismo”. Tutto è relativo; niente vale più di niente altro (se non, s’intende, le opinioni degli stessi teorici post- modernisti)/ Un professore di lettere dell’Università di Cambridge ha dichiarato che la pubblicità su un pacchetto di Kellogg’s Cornflakes vale quanto un passo di Shakespeare. Vent’anni fa lo stesso professore ha dichiarato che i sonetti di una sua studentessa fossero migliori di quelli di Shakespeare. Della ragazza geniale non si hanno più notizie! Io ricordo di avere sentito la stessa cosa (pronunciata dalla gente più ignorante) circa sessantacinque anni orsono. Adesso questa opinione assurda fa parte del ”canone della poesia contemporanea” secondo il vangelo dei teorici della sinistra che dominano completamente il mondo attuale. La Liuzzo non fa parte di quel ”canone” e, ”meno male”! Ma se la poesia della Liuzzo non aderisce a nessuna ideologia o ismo del secolo passato, non è potuta scampare alla globale atmosfera di nichilismo post- nietzschiano che oggi inquina tutti. E ciò mi porta al problema più grave nella poesia Liuzziana: l’apparente pessimismo. A prima vista, nove decimi del testo che compone la silloge ” Umanità” sono molto pessimistici, e questo sembra un difetto grave. Ma questo è giusto? Qui si tratta di poesia, non di dogmi teologici o argomenti filosofici. Dopo visite che ho avuto occasione di effettuare il Italia ad una ventina di Scuole Medie e Superiori ho dovuto concludere che il poeta italiano più amato dagli studenti è Leopardi. E chi è stato più pessimista del melanconico di Recanati? Debbo aggiungere, poi, che la Liuzzo ci concede una valvola di sicurezza, una scappatoia più di una volta, dandoci almeno un baleno di speranza. In ”Creazione”, l’ultima poesia della silloge leggiamo: ” Radice distruggerò dell’odio / che alle mie vene attinse / e l’infinito non sarà che inizio: / fine da fine, / origine d’eterno”! E ne ” L’ultimo canto del cigno” pag. 151 troviamo dopo tre pag. di autentico pessimismo… ” un eden distratto e distrutto / nel sanguinario mattino / che annulla / l’ultimo canto del cigno”! C’è dentro anche se accennata, una speranza implicita, un mondo della bellezza oltre le ”realtà terribili del Weltanschauung ufficiale dei reggenti di oggi”.

E nell’ “Esilio”, pag 126: Risorgeremo alberi / in libertà d’esilio, / topazi / sul mormorìo dell’onda, / sotto sfera turchina/ triste dondolare / di deserte barche. / Ombra / daremo al fiume / separando la cenere / dal sangue: / luce vestiremo / d’immenso” ! Tanto per una consistente abitudine che sembra, pagina dopo pagina, un nichilismo petulante imbronciato e lugubre. In questo, la nostra brava poetessa si espone con disinvoltura alla spiritosa condanna di Goethe: DerGotteserdelichtenSaal / Verdustensie zum Jammertal; / Daranentdeckenwirgeschwind, / WieJammerlichsieselbesind. ”Loro dipingono la splendida sala del mondo divino come una valle opaca di miseria, con questo subito mostrando come sono se stessi miserabili”/ La Liuzzo per certo si dimostra un soggetto ossessionato non soltanto da ciò che Paolo Arecchi chiama la ”cavernosità dolorosa” del mondo, ma anche da ossessioni soggettive. La parola ”attesa” capita almeno venti volte, sempre in veste peggiorativa, e l”’attesa” contribuisce ad accrescere ‘l’ansia’ spiega Zingarelli nel suo dizionario. Se per la Liuzzo la vita dei più d’oggi consiste nel ” vegetare dell’attesa”, questo ci conduce inevitabilmente all ‘<<assurdo >>: un concetto molto di moda da cinquant’anni. ”Attesa”, ”angoscia”, ”ansia”, l”’assurdo”, sono tutti i sintomi della vita moderna ed è là che è mirata l’attenzione della Liuzzo. L’umanità attuale risulta ”fossili umani” ( pag 133 ), e viviamo ”questo inutile vivere” (pag. 83). L’ <<illuso mio peregrinare>> è alla base di questa sterminata protesta contro il ”Destino”, ”l’inumano dolore delle madri” ( pag 133 ) e tutte le altre atrocità di oggi.

E’ tutto nichilismo ossessivo, sì, ma a differenza dei post- modernisti, nella poesia della Liuzzo c’è sempre presente (”presenze” sono tabù ai p.m!) implicitamente il senso del sacro e dell’ideale; ed è questo che ci dà la poesia, non il nichilismo come tale. La fede, anche quando non appare manifesta è presente seppure non sempre possiamo individuarla. Mentre la poesia del passato per la maggior parte rifletteva la relazione fra l’uomo e il divino, e anche l’amore mondano adombrava quello divino, i poeti di oggi (in generale) hanno posto la loro attenzione e la moralità presenti nelle relazioni sociali. L’amore ”socialista” derivato dall’amore cristiano è stato il filo conduttore della poesia di questo secolo. Molta poesia contemporanea sembra inconsapevole del passato e dei diversi valori. Paolo Arecchi si è riferito a ”tensioni fra antico e nuovo” nella poesia Liuzziana, ma non ha approfondito il tema. Difatti l’unico personaggio storico menzionato nel testo della poetessa, a parte Ibico, è S. Francesco d’Assisi; e l’unica visione storica è la visione dell’antico Egitto, che è pura fantasia. La Liuzzo è assolutamente ”moderna” nel senso del predominio nella sua opera del mondo sociale. Recita: ” Pietà non concedo”. Ma tutto il libro è pietà. Il grande poeta della prima guerra mondiale, l’inglese Wilfrid Owen, è ancora famoso per il suo detto: ”La poesia sta nella pietà”. Una opinione che gli è costata l’esclusione dalla Oxford Book of Modern Verse; infatti venne sostituito da un altro grande poeta, W. B. Yeats, che ha curato quell’importante antologia negli anni trenta. Fermo restando tutto ciò è proprio la pietà che si evidenzia in ogni pagina di queste poesie quale molla – maestro. Poesie di protesta, di contestazione politica che travolge in intensità e sincerità le grida e le proteste così convenzionali degli intellettuali delle sinistre. La Liuzzo potrebbe dire con il Gohete che parlava dell’Italia nel tardo Settecento: ”Leben und webenisthier, abernichordnung und zucht; / Jedersorgtnurfursich, misstrauet dem andern, isteitel, / Und die Meister desStaatssorgemnurwitderfursich”. Qui c’è movimento e vita, ma nessun ordine o disciplina; ognuno bada solo a se stesso, sospetta ogn’altro, è pieno di vanità: e i reggenti dello Stato pensano solo a se stessi”. Su ogni pagina della nostra poetessa c’è l’impegno civile. Se i suoi sentimenti pubblici, appassionati come sono, sono i sentimenti di un sé rappresentativo (e pare coincidano pericolosamente con le lacrime di coccodrillo della stampa giornaliera) essi sono certamente sinceri e giusti. Ed in ciò dobbiamo concordare tutti. Perché a differenza della stampa che leggiamo senza emozione e con indifferenza il lettore avverte su ogni pagina della Liuzzo questa ”pietà universale”. Ma c’è di più: questa poesia ha una dimensione visionaria. La Reggio Calabria attuale in queste poesie è molto sfumata, ma dappertutto c’è per così dire, una Calabria dell’anima. Mentre il presente non è assente ( come vorrebbero i ”post – modernisti” )… ”Cuori di vecchi consunti / e giovani delusi / nell’entroterra infernale / dove tutt’oggi / la miseria governa” pag.50 ( ”Sud” ) il contesto di questa poesia è una Calabria fuori del tempo e dello spazio, anche in un certo senso, una Calabria fuori dalla storia. ”Ossa tue Calabria, regina degli zingari! / dove amor tuo ozierà / l’eterno cemento di perenne oblio” !( ”Ossa di Calabria” pag.59 ) La stessa poesia continua: ”Gemme i cotogni d’Ibico reggino: / fuggì la gru e resti nutrirà la fantasia / ignoti mondi / dove nitrì cavallo voluttà di carrubo / e baco onorò tra frivole sete / e tribole sentenze: / l’ingiusto patire dei tuoi ridotti spazi.”! Ecco la vera poesia, scaturita dal concreto e attuale ma viva e vegeta soprattutto nella poetica fantasia (non mera fantasmagoria surrealista o freudiana) in una dimensione melanconica ma non nichilista della visionarietà. E questi ridotti spazi sono proprio il nostro mondo di oggi. Se la poesia della Liuzzo è ineguale, non uniforme e a volte discontinua, arricciata quando è di gesso o di cemento, abbozzata anziché pienamente fornata, sgrossata quando di vero marmo, è proprio in questo che c’è la sua forza. Il lettore ne interpreti l’autentico significato. In questo senso vorrei definire la poesia della Liuzzo ”post- tradizionalista” anziché post- moderna. Tutta la tradizione è presente anche se implicitamente. Ma questa ”implicitezza” è inequivoca: ” Nel silenzio mi perdo / dove raggio intercetto / luminosa cadenza del cosmo / l’illuso mio peregrinare. / Totale identità / concentra linfa / nel disperato canto / che non udrò domani”! (”Cosmo”, pag.77 ). E non è l’identità, o ” l’identificazione” la chiave della vera poesia?

Pian di Scò, giugno 1995.

 

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