Maria Teresa Liuzzo e il libro ‘La luce del ritorno’
Antonio Risi
– Dopo tanto buio fuoco un’alba di luna -, Prefazione, Postfazione e Glossario a cura di Mauro D’Castelli, Reggio Calabria, A.G.A.R. Editrice 2022, pp. 184. Questo romanzo-fiaba inizia dopo la “dipartita” di Mary, accompagnata da visioni soprannaturali che ne certificano la sopravvivenza oltre la morte “anche se forse è qui più corretto parlare – come nel Buddhismo – di rinascita” (Mauro D’Castelli, Postfazione, p. 150).
Frattanto, in giro si era iniziato a raccontare apertamente che certuni avevano visto Mary; qualcuno, per timore di non essere creduto, lo aveva pure giurato su quanto aveva di più caro. E dopo di ciò tutti in breve tempo lo affermavano con sicurezza, quasi che ciò potesse aiutare la verità a venire allo scoperto (p. 68).
Mi ha colpito il fatto che Maria Teresa Liuzzo racconta la “morte” di Mary in più parti del romanzo, ritornandovi in capitoli diversi. È una forma di racconto che mi ricorda la struttura del Corano, dove gli episodi fondamentali della storia sacra, la creazione di Adamo, Noè e il diluvio, Mosè e Faraone, vengono raccontati in diverse Sure (così sono chiamati i “capitoli” del testo sacro musulmano), come se occorresse ritornarvi su con un movimento a spirale. Mi piace pensare che, data la presenza araba nell’Italia meridionale durante il Medioevo, l’autrice abbia preso ispirazione anche da questa meravigliosa civiltà, come ha fatto con la cultura dell’antichità classica.
Durante i funerali, “tra primule d’ombra fu posta la bara, l’erba risplendette di lucciole. Voci celestiali risuonarono come una canna d’organo dietro un altare” (p. 33); simbolicamente, anche il tempo si ferma: “Tutti gli orologi del castello si erano fatti improvvisamente immobili dopo la prematura scomparsa di Mary” (p. 39). Ella stessa si vede diversa da com’era prima: “Mary – in quella perfetta beatitudine dopo la morte e la sua febbrile ascensione – si specchiò nel fiume ed ebbe l’impressione di vedersi ora per la prima volta; scopriva un’altra se stessa, una Mary sconosciuta e grazie a Dio viva” (p. 54). Anche le rondini, simbolicamente, sembrano sottolineare il mistero: “le rondini, in volo acrobatico, allacciavano i loro incerti pensieri per tracciare in cielo un conclusivo segno di certezza e verità” (p. 16). In genere gli uccelli hanno un significato magico e rituale: “auspicio” deriva da avis spicio, osservo gli uccelli, perciò le rondini, annunciatrici della primavera, connotano speranza e rinascita. Contrapposti alle rondini sono imprecisati “volatili” (pipistrelli?) che rendono i cuori “freddi e bui” (p. 20), così come alla solarità della natura si contrappone la casa di Mary, “spoglia e abbandonata” ora che lei non c’è più.
Significativa, qui, la presenza, su un tavolo, di “uno scarabocchio di mollica non più fresca, annerita, simile a un pizzico di carne incancrenita” (p. 24). Il pane, anche un’insignificante mollica che sembra (o lo è davvero?) carne incancrenita, mi fa pensare ai tanti “miracoli eucaristici” di cui è ricca la nostra tradizione cattolica. La casa sembra piena di fantasmi d’immagini di stampo surrealista. Tra questi fantasmi evanescenti sopravvive, sfocata, l’immagine di Mary, subito percepita da Mia. Anche altrove casa e natura, interno ed esterno, si contrappongono:
“Sono dunque tornata nella mia casa di sempre, quella della ragione. Ho trovato solo scheletri e fantasmi ad aspettarmi. Un piovasco aveva fatto scivolare dai tetti la ruggine. La misera carne non ospitava più lo slancio della vita. e il sole rischiarava solo macerie”.
“Era quasi primavera. Nel lungo e calmo dormiveglia tutto si andava animando: la natura, gli animali, le persone, persino gli oggetti. […] In questo minuto di risveglio mi si illuminarono la felce umile del sottobosco, le colline, il fiume, l’amore come mia proprietà immemoriale. Quanti pezzi di cuore ho lasciato che il mondo mi rubasse!” (p. 76).
La primavera è presentata come un’esplosione di vita, non soltanto fisica, ma anche mistica, in quanto la natura si popola di elfi, fate, folletti. Mia, la bambola di Mary che abbiamo imparato a conoscere ed amare attraverso i precedent romanzi di Maria Teresa Liuzzo, soffre per la sua assenza e forse proprio per questo funge da tramite fra il mondo fisico e quello spirituale perché è l’unica che può vedere gli spiriti della natura intorno a sé. Mia vive “nel suo mondo parallelo” (p. 26), continuando ad incontrare il popolo fatato e ad ascoltare le filastrocche degli elfi. Nella natura rivede Mary, anche se la trova “diversa”, come fosse “altrove” (p. 19).
Certo Mia ha una sensibilità “medianica” perché ha conservato un cuore infantile. Che l’infanzia sia un momento privilegiato di comunicazione fra diversi piani del reale è sottolineato anche dalle poesie che incastonano la scrittura in prosa e riecheggiano filastrocche infantili proprio per ricreare l’innocenza della parola quando bocca e cuore coincidono; “la gemella di Mary, cantando queste filastrocche rivive di vita propria, riè un po’ Mia e un po’ Mary” (Mauro D’Castelli, Postfazione, p. 152). Mia vive sulla linea di demarcazione fra due mondi, ma considera irrisorio tale confine: esisteva “una simmetria – di cui Mia aveva preso piena consapevolezza – tra il mondo degli uomini e la dimensione degli elfi, degli gnomi, delle fate; un andare oltre il discrimine – tutto mentale – tra figura e astrazione, presente tangibile e remota impalpabile arcaicità. Se l’uomo cittadino apparteneva alla prima categoria, Mia che non era né essere umano né elfo e nemmeno una fatina, considerava questa insensata linea di demarcazione mentale e temporale qualcosa di irrisorio di fronte all’unica vera potenza e autorità che lei riconosceva: l’immaginazione”, che le permetteva di oltrepassare “l’alta siepe dell’ermo colle leopardiano” (p. 66).
Mary rivive soprattutto attraverso i pensieri di Mia. È un rapporto complementare, quello tra Mia e Mary: se è vero che Mary vive attraverso i ricordi della sua bambola, è altrettanto vero che Mia sopravvive concentrandosi su Mary: “Mia seguiva il ritmo dell’acqua, i cerchi concentrici che si aprivano a sfera, ma il ricordo di Mary le impedì di smarrirsi” (p. 83). Una frase significativa sottolinea, a mio parere, tale complementarità. Parlando della morte di Mary, Maria Teresa Liuzzo scrive: “Moriva, in ultima analisi, una ‘bambola’, trastullo suo malgrado di peccatori impenitenti e simulacro di peccati ancora accesi” (p. 33). Mary è stata una “bambola” (in negativo, come soggetto passivo soggetto alle voglie altrui): “basta davvero un’azione negativa, anche piccola, un atto vile, turpe per distruggere la fragile esistenza di una persona, trasformandola in un pupazzo” (p. 101) e Mia è una bambola (in senso positivo, come oggetto d’amore particolare). La narrazione sposta continuamente il punto di vista da Mia a Mary e viceversa. Osservo, pure, che i due nomi possiedono quasi lo stesso suono, se pronunciamo la ipsilon come i e attenuiamo il suono della erre. Oltretutto, “Mia” sembra l’abbreviazione infantile del nome “M(ar)ia” e chissà, magari chiamavano vezzeggiativamente Mia la piccola Maria Teresa…
A questo alternarsi di punti di vista collegherei anche l’alternarsi di immagini positive e negative attraverso la storia narrata, sicché viene a crearsi una sfaccettatura molteplice della realtà, dove l’alternarsi di luce e tenebre congeniale all’autrice acquista ulteriori sfumature grazie al vario e personale modo in cui i protagonisti vivono gioie e dolori.
L’acrimonia dei familiari nei confronti di Mary continua, grottescamente, anche dopo che Mary è stata deposta nella bara.
Mary sopravvive nei familiari-aguzzini come rimorso, coscienza dei crimini imperdonabili e incancellabili da loro commessi.
Predomina in loro la paura d’essere scoperti, perciò rovistano dappertutto per eliminare prove. Non trovano nulla perché non sono capaci di soffermarsi a vedere: “Se solo si fossero fermati a interrogare quelle bianche ossa, esse avrebbero parlato dicendo tutta la loro verità; avrebbero scritto, nell’aria, anche senza inchiostro, perché si sa, la parola di verità non si può incatenare, né percuotere” (pp. 78-79).
Ma la coscienza delle angherie commesse viene facilmente tacitata da chi è assuefatto al male: “Mi avete mandata a morire / e poi ve ne siete dimenticati” (p. 63). Qui è necessaria una riflessione, favorita da un passo del romanzo:
“Il tempo uccideva chiunque. Il rimosso storico generava una doppiezza maligna. La mente, più oscura della notte, allestiva la sua disfatta: la morte delle illuminazioni e della coscienza” (p. 94). Al rimosso della coscienza individuale, che cerca di tacitare i crimini commessi, corrisponde, se si allarga la visuale, il rimosso della storia che provoca il perpetrarsi delle tragedie, dei mali e degli errori.
Se nei familiari Mary è presente come paura, rimorso e rimozione, in Mia, ella sopravvive come grazia, riconoscenza e luce che nessuno potrà spegnere. Il Principe, invece, fa rivivere Mary come mistica estasi a contrastare il male e il buio: “Di stelle è la tua fronte” (p. 53). La fanciulla amata, dopo morta diventa una dea, un essere soprannaturale che non sembra in grado di guidare il Principe verso la luce tanto agognata: “Diversa era, un fuoco da addomesticare, / lui come avrebbe potuto riconoscerla?” (p. 86); “All’alba ti cercai, ma tu non c’eri” (p. 94). Mauro D’Castelli sottolinea (p. 146) come il Principe veda vuota la sedia dove siede Mary. Nel piccolo Raf Mary è presente come tenerezza: “Ma tu tardi a venire – mammina –, chi mi parlerà di te ora che i colori sono spenti e più non sento il tuo tenero abbraccio, la tua guancia di velluto?” (p. 40). D’altra parte Mary vive grazie alla sua stessa empatia con chi le è stato vicino: “Mary vedeva il suo Principe soffrire […]. Lo ricordava quando lui, inflessibile come un fuso, si esercitava con frecce ed arco […]. Rivedeva I suoi cavalli […]. Ricordava le passeggiate in Sila” (p. 44). Se è vero che i morti rivivono nel ricordo dei vivi, in questa storia, magicamente, l’assunto acquista una sua concretezza affettiva: “Vivo in un altrove, oramai, – dice Mary – nel respiro di un altro petto” (p. 52). Un passo dove ella va alla ricerca di Mia mi ricorda il mito di Demetra che cerca la figlia Kore: “Lo spirito di Mary era alla ricerca di quell piccolo cuore appuntato, o meglio, cucito su una tasca. […]
Domandò in giro, ma nessuno sapeva nulla, nessuno lo ricordava.
La strada era buia, l’aria gelida, il laghetto e lo stagno ghiacciati” (p. 45). L’aria gelida e il lago ghiacciato evocano proprio l’inverno, quando Kore è nell’Ade e Demetra trascura di far fiorire la natura. Altrove, tuttavia, i ruoli sembrano invertiti: “Mary tornò Kore sfiorando l’Ade” (p. 120). Su di ciò si veda la Postfazione di Mauro D’Castelli (p. 123). Un altro passo ricorda il mito del Giardino delle Esperidi (vedi il Glossario a p. 163), a testimoniare l’ispirazione della Liuzzo, che attinge a piene mani alla mitologia della Grecia classica: “La mela dorata era l’analogo di Mary da quando lei, con la sua anima generosa e delicata, si era trasferita nel bosco” (p. 57). La narrazione, in effetti, è ricca di elementi simbolici. Il Capitolo VII: La valle delle lūmère, è una specie di intermezzo esoterico e surreale dove i consueti protagonist della nostra storia sono assenti. In realtà, l’impianto esoterico appare funzionale al significato morale della storia che Maria Teresa Liuzzo racconta, una storia di rivincita dello spirito: “Solo la purezza della mente non si lascia calpestare” (p. 51). Mary, che “non aveva braccia per abbracciare, né gambe per muoversi” (p. 75), sembra aver acquisito una saggezza sapienziale: “Imbastire i giorni in modo che l’ombra non ci escluda dalla vita: era invece la nuova sapienza di Mary” (p. 58). Nella sua nuova esistenza, Mary scopre sempre nuovi e diversi aspetti della natura e vi si immerge, in un susseguirsi di continue rivelazioni che danno senso al suo precedente, infinito soffrire: “La vita, per nostra fortuna, resiste al male di ogni complotto, di ogni congiura o trama malefic ordita da esseri flemmatici e senza cuore” (p. 59); “Nella mia povertà avevo tasche piene di una fatalità di luci” (p. 74). Se la vita di Mary fu “ricca non tanto di gioie quanto delle crudeltà che le furono inflitte” (p. 92), la sua morte non è dissolvimento ma purificazione: “La morte invece di andarsene mi ha purificato senza trattenermi” (p. 62). Questo carattere sapienziale del romanzo si basa sulla Parola, come evinco da un significativo ed illuminante passo: “Leggiamo nella Bibbia che prima fu la Parola e dopo la Luce” (p. 64); sono dunque la Parola e la Poesia ad illuminare, a dar senso ai miti, che hanno la loro radice più profonda nella “terra dei primordi. / Piena di alberi, di selve inestricabili, di ombrosi querceti / e di luminosi olivi attraversati da fiumi, paludi, erte colline / e montagne appena formate. […] / Nacque in quel verde la parola” (p. 97). Se, dunque, ascoltiamo la parola liuzziana, vediamo concretarsi un mito, sottolineato dal “così accadde” (p. 68): l’autrice racconta, dunque, che Mary morente fu sostituita da una sconosciuta sorella gemella vissuta negli agi e che si riscatta sostituendosi a Mary. Ma la sconosciuta sorella rivela una sorpresa:
Mary perdeva la sorella nel momento in cui l’aveva conosciuta.
“Come ti chiami? Dimmi almeno il tuo nome!”.
“Mia!”, rispose lei (p. 69).
È un mito universale, oltre che un topos letterario, il riconoscimento e ritrovamento di fratelli o sorelle o in genere familiari che andrebbe indagato a fondo, e non è questo lo spazio per approfondire l’argomento; basta l’avervi accennato.
Ne accenna, oltretutto, anche Mauro D’Castelli nella Postfazione (pp. 123 e 125).
Se è vero che Mary e Mia sono sorelle gemelle, comprendiamo perché la “purificazione” di Mary coinvolge anche Mia, che acquista la capacità di discernere il positivo nei grovigli del negativo: “Mia si ritrovò in un’isola immensa e una visione la trascinò lontano. Si trovò nel bel mezzo di una giungla dove si combatteva la maledetta e sporca guerra del Vietnam. Un mondo subdolo, mimetico, spietato, sotterraneo. Ma basta di ciò: nel cuore di Mia, verdi erano i campi e la speranza cresceva alta più del grano” (p. 84).
Mary, che “non avrebbe mai fatto del male ai suoi aguzzini” (p. 103) è una creatura di luce che attraversa indenne l’inferno della storia e della società, molto espressivamente descritto in toni cupi e angosciosi in molte pagine del romanzo. Mi viene in mente la Beatrice dantesca, che scende all’Inferno senza essere toccata dalla miseria dei dannati o assalita dall’incendio del luogo. Mary-Beatrice è, dunque, la luce (la Grazia) che muove la Ragione (Virgilio o il mondo intorno a Mary). Se l’ultimo capitolo sembra tornare indietro, all’oscura vicenda narrata nel primo romanzo della Trilogia, vediamo invece che Mary-Ragione riesce infine a ricomporre in un equilibrio che è anche, soprattutto, arte e poesia, il caos sociale e familiare che la circonda: “Adesso il cuore non stave più sulla bocca (di Mia-Mary) ma sul petto, al posto giusto. E le ciliegie ricamate sulla tasca, custodivano con pazienza il nettare della vita. il karma aveva messo ogni cosa al proprio posto” (p. 119). E come in tutte le fiabe che si rispettino, anche in questa raccontata da Maria Teresa Liuzzo avviene la trasformazione, il riscatto e la redenzione: “Le fate, commosse, diedero vita a Mia che, da bambola di pezza e corda, divenne una bellissima bambina in carne ed ossa. Come noi già sappiamo, Mia aveva offerto – raffiguriamolo in questo modo – una sua costola per la creazione della sorella gemella di Mary che la salverà dallo scivolare nella morte sostituendosi a lei.
Ora, la metamorfosi di Mia ricorda quella di Pinocchio che da burattino divenne un bel bimbo con il cappello di mollica. Mia – si è appena detto – fu d’ora in poi non più una bambola ma una graziosa bambina. Una seconda Mary in miniatura” (p. 120).
Una trasformazione che, certo, avviene anche nel lettore, guidato dalle tenebre alla luce grazie alla scrittura oracolare e sapienziale di questo libro.