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Antonio Risi: La ricerca della solitudine di Maria Teresa Liuzzo

 

Maria Teresa Liuzzo, Genesis *Poesie*, Reggio Calabria, A.G.A.R. Editrice 2008

È una genesi difficile, quella cantata da Maria Teresa Liuzzo. La creazione soffre, come scriveva San Paolo, delle doglie del parto. È l’incompletezza della natura umana, a determinare alti e bassi, tentativi e slanci. Indubbiamente la luce orienta l’anima verso un itinerario di speranza, verso un mondo azzurro dove lo spirito può liberamente levarsi in volo felice. Ma siamo fatti di carne e di sangue, legati al tempo che scorre coordinando i pensieri e incapsulando l’immaginazione, sicchè la “polvere umana / condannata ad altre esigenze” (Usignolo, p. 132) costeggia i confini del caos e della morte. L’ammantarsi di nero dell’anima è simboleggiato da “corvi invadenti” (Lo specchio della vita, p. 138) che ricordano il campo di grano con corvi di Van Gogh. Vita e morte si contendono lo spazio ed il tempo, alle soglie dei secoli come nell’animo dell’autrice. La Genesi cosmica e la genesi poetica corrono su binari paralleli, formandosi vicendevolmente come se sgorgassero l’uno dall’altro, perché l’uomo è coscienza del creato e ne registra di volta in volta il soffio di vita o il gelo della morte, secondo stati d’animo e disposizioni psicologiche.

Noi, nell’indefinitezza dello spazio e del tempo, viviamo “l’odissea incompiuta / della carne” (Limiti coscienziali, p. 144), bruciati dall’incalzante desiderio di tornare a casa, alle origini, alla genesi, appunto. Perché comprendere la genesi, afferrarne lo svolgimento, vuol dire anche scoprire quali sorti ci attendono, qual è il fine di tutto questo eterno big bang di cui cogliamo l’eco nell’esplodere d’astri e nell’eruttare di vulcani. Se non ci fosse alcun fine? Incalza la ragione, nutrita col pane della scienza e col vino della logica. Allora tutto sarebbe pietra, polvere; parole che ricorrono con molta frequenza in questa silloge. Ma il cuore non demorde e, nutrito d’altro Pane, dissetato d’altro Vino, ribatte: se la coscienza gode della vita, non può morire a se stessa, annichilirsi nel nulla! Sospesa fra cuore e ragione, la poetessa spera “ch’io possa un dì sapere /d’altri sopravvissuti / se ultima sentenza / fummo noi carne, / o vento!” (Dramma esistenziale, p. 162). Il dialogo, in certi passaggi, si fa drammatico; l’anima parla all’io cercando una risposta che non viene, mettendo in dubbio, ed in pericolo, la stessa esistenza della persona, che nell’inganno quotidiano degli impegni concreti pare così assodata: “Tu mi parli animus / e non ti mostri / e ti rispondo / pure senza esistere” (Penzolare d’ombre, p. 164). Tutto sta nell’esser certi se si nasca alla vita od alla morte.

I versi brevi di Genesis aderiscono perfettamente all’alternarsi di sensazioni fatte d’illusioni e delusioni, disperazioni e speranze, momenti che scandiscono la vita di ciascuno di noi. È come se il Fiat lux divino s’allungasse snodandosi lungo tutto l’arco spaziale e temporale della creazione.

Ma in quel primo comando del Signore vedo l’immane lotta fra luce e tenebre, perché certo non era semplice che la luce fosse. Apparentemente è facile dire: Sia la luce! Ma se pensiamo a tutte le volte che brancoliamo nel buio, all’ispirazione che non viene, agli scoramenti di fronte alla malattia ed alla morte, ci rendiamo conto che, se è difficile per noi, che siamo già concepiti nella luce, illuminare tutto, dovette esserlo ancor più per Colui che fu costretto a trarre la luce dal nulla.

Questo, penso, è ciò che Maria Teresa Liuzzo ha sentito più profondamente ed ha poi trasfuso in questo libro: l’assimilazione di chi, fragile ma sensibile essere umano, crea poesia cercando di illuminare il fango col canto, con il Verbo che trae l’universo alla luce della vita. In questo parallelismo la poesia gioca un ruolo fondamentale, perché compito del canto poetico è quello di tenere insieme, intrecciandoli fra loro, i frammenti della vita: “Ho sperato tanto / come cieca luna / lungo le rive del tempo / tra sepolture di voci / fuscello di fango / che ho difeso e intrecciato / col canto mio ultimo / di morte-pace-conquista” (Cessata è la sete, p. 168).

Si narra che Michelangelo, mentre affrescava le storie della Genesi, sulla volta della Cappella Sistina, iniziava l’opera al mattino presto, e lasciava il lavoro a tarda sera per non incontrare nessuno che, intrattenendolo con discorsi oziosi, lo distraesse dalle profonde meditazioni sull’opera che andava eseguendo. Questa ricerca di solitudine appartiene anche a Maria Teresa Liuzzo, che desidera esser lasciata sola, nel buio della propria intimità, donde sorge la luce della poesia: “Lasciatemi / come corteccia contusa / all’angolo buio del mondo / ch’io tessere possa / umani arazzi / di luce” (Canne, p. 180). La poetessa schiva le fatue relazioni sociali, dove ognuno, una maschera di felicità sul volto, finge di lenire l’altrui pena. Lei non depone il suo fardello di umano dolore, consapevole che per conquistare vette di luce occorre attraversare valli di lacrime. La vita umana, dalla nascita alla morte, soffre sconvolgimenti cosmici: “Culle di sventura / entro cieca violenza / di magma / piroettano fughe / ai margini del compiuto / nel fuoco-energia / che lento ritorna / notturno di cenere” (Ventaglio, p. 184). Qui tocchiamo con mano gli opposti liuzziani, in questa immagine della luce e dell’energia del fuoco che torna cenere fredda ed inerte. Si tratta sempre dell’eterna lotta fra il buio e la luce, che esprime, è vero, l’incertezza nel generarsi d’ogni vita e coscienza, ma dice anche che il buio, come la camera oscura che permette lo sviluppo fotografico, è condizione necessaria alla genesi della luce: “Tra labirinti / d’ombra / salire vedo /scarabeo di luce” (Una farfalla di polvere, p. 186).

Eppure questa luce, questa chiarezza cristallina, immacolata, che tanto desideriamo, che cerchiamo brancolando a tentoni nel buio, non può accendersi e diffondersi se sulla terra mancano giustizia e libertà: “Ogni illusione analizzo / nel disperare vago / di terrena impronta / nel fascicolo dell’esistere / ché non v’è libertà / senza giustizia” (La forza del pensiero, p. 196). Nel mondo, osservato con sguardo amaro da Maria Teresa Liuzzo, si ripete ancora ed ancora l’assassinio di Abele: “Ora sii maledetto – dice il Signore a Caino – lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello” (Gn 4, 11). La poetessa, certo pensando a questo passo della Bibbia, scrive: “Rifiutava il sangue / l’arida zolla / linfa carminio e maledetta / d’altro assassinio” (Semina oscura, p. 200), e, angosciosamente, denuncia l’uso delle armi nervine in Giappone (La faida del sangue, p. 202), il massacro in Ruanda nell’aprile 1995 (Orfani in Ruanda, pp. 204-208), l’assassinio di Yitzehak Rabin (Israele, pp. 210-212).

Senza libertà e giustizia la vita diviene schiavitù e condanna, asservimento alla mercificazione dell’arte e dell’amore. L’anima si guasta, marcisce nell’abiezione: “E voi / perduti /nella viva tomba della vita / il guasto tramavate / e la menzogna” (Il canto ne traduco, p. 218).

Eppure, in questi andirivieni, in questo movimento pendolare, anche nel male può brillare la luce, nel fermo e sereno sguardo della poetessa, che, consapevole dell’inconsistenza del suo essere, comprende in un abbraccio fraterno chi si lascia trascinare dalla burrasca del male: “Era il male / vestito d’innocenza / e in quei profili indefiniti / le vittime colsi / di troppa ferocia. / Erano germogli/ di una nuova umanità / dove l’aratro del tempo / fu vento d’amore / tra eterno stormire di pace. /Furono figli miei / tutti i figli del mondo / prima che la sguaiata illusione / me li portasse via /assieme a questa nullità d’anima” (Parte di qualcuno, p. 220).

Maria Teresa Liuzzo tenta pervicacemente di preservare in lei stessa, come perla preziosa in una conchiglia, la sua dolcezza innata, intessuta di sensibilità malinconica amante di “lunghi silenzi” fertili alla meditazione che infonde speranza. In questi silenzi leopardiani “soffiano ali d’infinito”: lo spirito creatore che anima le illusioni vaghe della nostra esistenza di polvere, sostanziata di razionalità che fiorisce entro “orizzonti finiti”. Ma in questi orizzonti appare un tu, evocato da un profumo triste, eppure capace di portare una goccia di serenità nel sangue della poetessa. Ella sente il disperato bisogno di quel tu, perché quando, nella notte oscura dell’anima, la solitudine s’accompagna con la putrefazione morale e penetra nel sangue svuotandolo di efficacia vitale, la luce del sole illumina soltanto un precipizio di dolore e di indifferenza. Ma infine anche l’altro, che sempre ritorna, cagiona “la cruda morte / di ogni altra illusione”. La poetica liuzziana, intessuta di ritrosia e desiderio di confronto, è ben espressa nella poesia che ho parafrasato, e che per me è la più bella: Profumo di tristezza (pp. 230-232).

Nei silenzi meditativi delle ultime pagine si fa più filosoficamente enigmatica la poesia di Genesi, come a farci intravedere l’altrove, ora invisibile, dove avverrà la nostra reale genesi, in una luce che c’investirà trasformati, trasfigurati: “Cercheremo l’invisibile / quale pane dell’anima / nei dì da venire / quando inceppare udremo / la cerniera del cuore / nell’abito-corpo / logoro e smesso” (Irrimediabilmente, p. 242). Nel chiudersi del cerchio l’enigma dell’origine s’aggancia a quello della fine, abbracciando la ricerca del senso dell’intera esistenza: “Quale farsa imbastirà l’incognito?” (Incubo e cenere, p. 246) si chiede la poetessa.

In certi casi la visione liuzziana si fa più cupa, quasi tragica, dove un ruolo importante, a mio avviso, gioca la meditazione sulla morte, ineluttabile evento che chiede, proprio per questo, un maggior conforto di speranza: “Speranza! / Tu, forza sconosciuta, / Luce delle madri, / luce della luce e delle tenebre / liberaci dalle dementi ombre” (Fuga di nubi, p. 254). Tangibile è anche il senso dello scorrere del tempo, che, volando via come nubi sospinte dal vento, tutto frantuma in polvere, dissolvendo tutte le forme: “Deceduta è ogni forma / tra le linee del tempo / in furia salmastra / già capitale estinto / di visioni” (Un abito di polvere, p. 264).

Man mano che procedo nella lettura di questi versi, mi rendo conto di come la fisicità del mondo materiale si sfaldi a poco a poco. Prevale il concetto di caducità e di effimero dell’esistente, che pone, tuttavia, l’essere in una nuova dimensione. Se permane il pessimismo liuzziano, che descrive un’umanità alla deriva morale, noto anche un ampliarsi della sfera intima, che permette alla poetessa di immergersi nei ricordi: “Risorti sono / gli arcieri della memoria / e il fiume ci accoglie / nella sua anima / senza respiro / e senza ritorno” (Gli arcieri della memoria, p. 282). Nel disfarsi d’ogni certezza pertinente allo spazio ed al tempo si sviluppa l’intuizione dell’eterno che fa apparire assurdo il ripetersi delle stagioni: “E la rondine torna / a primavera inoltrata / nel lampeggiare agguerrito / di gemme e astri / vestita a nero / attorno alla stele fiorita / dal drama assurdo del tempo” (Il dramma del tempo, p. 290). Anche perché lo scorrere del tempo produce cambiamenti in peggio nel comportamento antropologico e sociale, captato prontamente dall’anima sensibile della poetessa, che si rende conto del fatto che valori genuini che appartenevano ad una radicata tradizione sono stati sostituiti con idoli fittizi che finiscono con lo sradicare la personalità umana; l’uomo, per esprimere pienamente il suo essere, dev’essere in relazione costante con l’ambiente naturale e sociale reale che non può essere rimpiazzato da surrogati virtuali: “Non più giunco di braccia / o dolci ninnananne / occultate dall’ieri. / Videogiochi, robot e violenza /attizzano blocchi cerebrali / sostituiti ad aquiloni e mondi verdi / […] / Tutto è contorto e gelido / in questo prisma d’avaria meccanica / dove la scienza insegue la ‘sapienza’, / in quest’umano teatro da burla / dove l’essere non è che misera protesi / nella satira crudele dei bulloni” (Scisma, pp. 292-294).

Maria Teresa Liuzzo sosta al limite del tempo, dove futuro e passato s’incontrano annullandosi. La sua certezza ultima è che alla fine nelle tenebre una luce di vita brillerà, genesi di vera ed eterna esistenza. Qui ed ora, invece, siamo costretti a comprometterci, in un’esistenza intessuta di bene e di male, di luce e di tenebra, di morte e di vita, come sottolinea la poetessa negli ultimi versi del libro: “E la vita sempre ci compromette / nell’inganno senza tempo / quale bagaglio estinto della morte” (Arroganza e dispotismo, p. 304).

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