Davide Borruto: I “sogni” di Sergio Leone
Avvocato Davide Borruto – Giornalista Free Lance – Vice Direttore Rivista Internazionale di Arte e Cultura ”Le Muse” edita dal 2002
Dopo aver inventato quello spaghetti-western che tanta fortuna avrebbe regalato al cinema italiano per circa due decenni, Sergio Leone decide di cambiare genere, nonostante la trilogia del dollaro avesse fruttato incassi oltre ogni rosea aspettativa ed i produttori premessero affinché il grande regista romano dirigesse ancora film dominati da pistoleri, cospicui bottini e musiche epiche. Allettato dall’idea di poter dirigere due grossi nomi del cinema western ‒ Henry Fonda e Charles Bronson, che aveva tentato invano di ingaggiare già ai tempi di Per un pugno di dollari ma che avevano declinato l’offerta per diffidenza nei riguardi dell’allora anonimo regista ‒ grazie ai mezzi messi in campo da una grande major come la Paramount, Leone inizia a lavorare al progetto di quello che sarebbe stato C’era una volta il West, primo capitolo della sua seconda trilogia, detta del tempo in riferimento ai titoli delle pellicole che la compongono (per l’appunto, C’era una volta il West, Giù la testa ‒ il cui titolo provvisorio era C’era una volta la rivoluzione ‒ e C’era una volta in America). Un altro modo per indicare queste tre pellicole potrebbe essere trilogia dei sogni, giacché a dominare le rispettive trame son proprio i sogni, i progetti, le ambizioni ed i desideri dei personaggi che si avvicendano sulla scena. Non che nella precedente trilogia, ove l’aspetto venale è indubbiamente (ed inevitabilmente) prevalente (si pensi alla brama di egemonia delle due famiglie, Baxter e Rojo di Per un pugno di dollari, alla rapina della banca di El Paso ed alla taglia dell’Indio in Per qualche dollaro in più, ed alla ricerca del favoloso bottino di Bill Carlson ne Il buono, il brutto, il cattivo) non vi sia, in qualche misura, spazio anche per queste tematiche: la vendetta contro l’Indio che arma la mano del Colonello Mortimer, i rapporti corrotti tra Tuco ed il fratello o, ancora, la leale amicizia che si instaura tra Silvanito e lo straniero protagonista di Per un pugno di dollari, senza dimenticare il ricorso all’espediente del flashback, sempre in Per qualche dollaro in più, a cui l’autore farà crescente ricorso nei tre film, per arrivare a C’era una volta in America, dove il flashback costituisce la parte più cospicua della storia. Partendo proprio dal sentimento della vendetta, è esso a muovere le azioni di uno dei protagonisti di C’era una volta il West, il personaggio senza nome che ricalca, in qualche misura, il ruolo incarnato da Clint Eastwood nella prima trilogia, di eroe misterioso e silenzioso, di cui viene fornito il solo soprannome, ossia “Armonica”. La pellicola è l’unica della seconda trilogia a poter essere facilmente collocata in uno specifico e preciso genere, perché siamo ancora dalle parti del western, pur senza “spaghetti”. Le figure dominati sono quelle del già citato Armonica e dell’ambizioso e senza scrupoli Frank, passando per Cheyenne e l’uomo d’affari Morton (simbolo di una categoria destinata a rimpiazzare la “vecchia razza” di semplici “uomini”, come afferma Armonica nel duello che chiude il film). La novità di C’era una volta il West è data dall’importanza e dalla centralità di un ruolo femminile, la Jill interpretata con grande efficacia da Claudia Cardinale. Sono i suoi sogni ad esaltati e spezzati, la speranza di riscattarsi da una vita di prostituzione (che le viene con sprezzo rammentata da Frank), così come quelli dello stesso McBain, desideroso di realizzare addirittura una città tutta “sua” dopo anni di sacrifici. Se la collocazione di C’era una volta il West appare agevole, altrettanto non può dirsi del successivo, travagliato, lavoro, ossia Giù la testa. Concepito per essere diretto da Sam Peckinpah, al rifiuto di quest’ultimo Leone decise di occuparsene in prima persona. La pellicola è incentrata sulla rivoluzione messicana (tanto che, come già ricordato, si era pensato al titolo C’era una volta la rivoluzione, rimasto per l’edizione francese, mentre nei paesi anglofoni la pellicola venne battezzata A fistful of dynamite, ossia Per un pugno di dinamite, tanto per riallacciarlo ai precedenti titoli del regista) e fonde western, dramma, critica politica e sociale, avventura, con qualche sprazzo di umorismo e storia del Messico (vengono infatti citati personaggi chiave della rivoluzione come Villa, Madero, Huerta e Zapata). Se l’Armonica di Bronson sembra richiamare l’uomo senza nome della prima trilogia leoniana incarnato da Eastwood, il Juan Miranda di Rod Steiger sembra un’evoluzione di Tuco (Eli Wallach ne Il buono, il brutto, il cattivo), e non certo solamente per il ricorso al medesimo doppiatore (l’attore Carlo Romano, una leggenda del doppiaggio italiano) per i due personaggi. L’inizio del film è chiaramente western, con classica rapina ad una piccola diligenza che si conclude con l’apparizione dell’altro protagonista, John (interpretato da James Coburn), il quale però non arriva a cavallo (come un Eastwood qualsiasi), bensì inforcando un ciclomotore. Avendo compreso il talento di John per gli esplosivi, Miranda vede in lui la chiave per aprire la porta di un vecchio sogno di famiglia: rapinare la favolosa banca di Mesa Verde. Ma i sogni di John son più alti e profondi di quel del ladro di polli Juan, essendo lui un dinamitardo che combatte al fianco dei rivoluzionari (prima irlandesi, ora messicani). Le strade dei due sembrano inconciliabili, a maggior ragione del fatto che Miranda odia le rivoluzioni, ma gli eventi porteranno il rapinatore a scontrarsi con la realtà: la rivoluzione ha distrutto i suoi sogni (la banca di Mesa Verde è stata trasformata in una prigione politica ‒ non più colma di danari, bensì di un esercito di morti di fame ‒ e la sua famiglia ‒ composta dall’anziano padre e dai suoi sei figli, tutti avuti da madri diverse come tiene a chiarire ‒ viene massacrata in un’imboscata delle truppe governative) portandolo alla stessa disillusione di John che, a causa del tradimento del suo migliore amico (che, come vediamo dai flashback, ha venduto lui e i suoi compagni, facendoli arrestare e ‒ non è chiaro ‒ se gli abbia portato via anche la donna o la loro amicizia fosse tale da portarli a condividere pacificamente la medesima partner) ormai crede solo nella dinamite. Rimasto senza famiglia ed ambizioni, Miranda si strappa dal collo la croce (in risposta al fatto che Dio, a cui aveva raccomandato i suoi figli prima dell’imboscata, non li ha salvati) e va incontro alla morte, venendo salvato all’ultimo istante da John, col quale ormai si è instaurato un rapporto di sincera amicizia, come testimonieranno le scene finali del film. C’era una volta in America è progetto risalente ad almeno quindi anni prima rispetto la sua realizzazione. Nonostante siano stati provinati ed ipotizzati diversi nomi di grosso calibro, Leone aveva fin dagli Anni Settanta scelto Robert De Niro quale protagonista nel ruolo di Noodles, tanto da aver discusso con l’attore in merito al film già in quell’epoca. L’ultimo lavoro di Leone è il suo film forse più ambizioso, prolisso, quello più fortemente voluto e anche quello dalla maggior durata (la director’s cut, uscita nel 2012 a seguito di un certosino lavoro di restauro, arriva a ben quattro ore e dieci minuti). Se dal punto di vista commerciale non è stato un successo (gli incassi della trilogia del dollaro saranno di gran lunga superiori a quelli della trilogia del tempo), col tempo la critica ed il pubblico hanno consacrato anche quest’ultima fatica del regista romano, che risulta ‒ ancora una volta ‒ una commistione di generi. La dimensione onirica di C’era una volta in America è tale da indurre il pubblico a domandarsi se i fatti narrati siano accaduti davvero oppure costituiscano il frutto di un’allucinazione indotta al protagonista dall’oppio (sebbene appaia per vari motivi una teoria tutto sommato da bocciare). L’autore sembra tornare, almeno in parte, al tema già trattato in C’era una volta il West, con riferimento all’avanzare degli interessi fino alla loro prevalsa sull’onore e sui valori classici degli eroi del West (sono infatti interessi e brama di potere a contaminare il sogno a lungo condiviso da Noodles e Max ‒ interpretato da James Wooods ‒). Ma quest’opera si spinge più in là, raccontando l’esistenza quasi intera dei due protagonisti, uniti dalla volontà di non dover chinare il capo innanzi ad alcun padrone (un po’ come il giovane Vito Corleone che si ribella a don Fanucci nel Padrino Parte II) ma divisi da passioni diverse, in particolare la quasi ossessione di Noodles per Debora (Elizabeth McGovern), altro suo sogno, spezzato stavolta per sua stessa mano dalla violenza a cui la sottopone all’ennesimo rifiuto di iniziare una vita assieme nonostante ammetta di amarlo. Ad una eterogeneità di generi ed interpreti della trilogia del tempo (a dispetto della omogeneità riscontrata nella trilogia del dollaro garantita dalla presenza sulla scena di uno zoccolo duro di interpreti quali Eastwood, Volontè. Van Cleef, Brega) si accompagna, quindi, una convergenza e continuità di contenuti: non più il denaro (o il sigaro) ma, appunto, il sogno, è il vero protagonista.