Mauro D’Castelli: IL PUMA DELLA VITA SAPEVA TROPPE COSE
Prof. Mauro D’Castelli, Poeta – Saggista – Critico Letterario e Traduttore
— appunti di lettura —
“C’era qualcosa al mondo che non facesse pensare a qualcos’altro?” “Il puma”, capitolo IX C’è chi ama guardare la realtà di profilo, i poetici profili delle cose senza avventurarsi mai a osservare la loro minacciosa frontalità, la scomoda o pressante realtà di fronte a sé. Lo scorrere sotto i nostri occhi delle cose chiede, per essere interiorizzato nella scrittura di un romanzo, di saper guardare ogni evento frontalmente e anche di lato, scambiando i punti di vista (davanti, di sguincio) proprio come per una inquadratura cinematografica. E fino ai primi piani. All’osservazione dei particolari. Per un romanziere questo si realizza attraverso le descrizioni che seguono pari pari i movimenti dei protagonisti. E quando si tratta di due ragazzini, vivaci, mai fermi un minuto, sempre di fretta, la penna della scrittrice deve essere veloce, fare un vero e quindi attento esercizio di solfeggio, e abbozzare quanto accade con pochi tocchi o tratti. La scrittura di Jean Stafford sa proprio fare questo: mettere a confronto in una sola visione cose molto lontane tra di loro, così come il visibile del mondo e l’invisibile dei sentimenti e dei pensieri. Ciò che in una parola si affacciava alla loro giovane mente. Ma non meno bene, in una processione non meno solenne, vengono fuori dall’ordito di questa densa scrittura le descrizioni dei luoghi, prima dei sobborghi e della periferia di Los Angeles, e dopo della natura ingombrante del Colorado, nel ranch del nonno e dello zio dei due piccoli protagonisti. Vediamo allora una varietà di alberi, e di fiori, come quelli gialli di castilleja nelle mesas, o i piccoli germogli del grano invernale in mezzo alla neve abbagliante, o il luccichio argenteo dei pioppi tremuli quando Molly va su in montagna per starsene in pace a scrivere nella sua «radura ideale». «Ralph was ten and Molly was eight when they had scarlet fever», questo è l’incipit in originale del romanzo “Il puma” (Adelphi Edizioni, Fabula 391 – 2023, traduzione dall’americano di Monica Pareschi). In una frase vediamo affiancati, e lo saranno per tutto il libro, fino al tragico epilogo, Ralph e Molly. Uniti nella malattia, due anime senza vincoli, alla scoperta esuberante del luminoso mondo intorno a sé. Una scrittura in punta di penna, quella della Stafford, che passa dai contrappunti poetici delle descrizioni paesaggistiche e naturalistiche alle cadenze elegiache dei pensieri e dei sentimenti presenti nei cuori dei suoi personaggi. Ralph e Molly sono una coppia; ma crescendo qualcosa accade che li allontana, senza però separali. Per esempio, quando Ralph inizia il suo sodalizio con lo zio Claude – dopo la morte del nonno – e nel suo cuore – poiché di fatto continuano a vivere insieme nella stessa casa – abbandona Molly. Quando si spande il profumo dei tigli da una finestra socchiusa, suona la campanella e la scuola finisce, con la conclusione delle lezioni ha inizio il romanzo “Il puma” (in lingua originale “The Mountain Lion”), scritto da Jean Stafford (1915- 1979) sùbito dopo la guerra, nel 1947. Si tratta di una scrittrice americana, sposata con il poeta Robert Lowell, che nella vita ebbe una triste sorte, nota soprattutto per le sue ‘short stories’, fra queste anche “The Interior Castle” del 1946; ma scrisse pure un paio di libri per ragazzi “Elephi” e “The Lion and the Carpenter” (entrambi del 1962) e tre romanzi. Se l’originale presenta una scrittura veloce, dicevamo, e capace di catturare tutti i dettagli che si presentano nella storia in continuo divenire dei due gemelli (non gemelli per nascita ma di elezione), e la bellezza del paesaggio, del cielo; anche la traduzione di Monica Pareschi non è da meno. Tanto che si è sùbito, fin dalle prime righe, trafitti da strette lame di sole (il sole della California) filtranti dagli interstizi delle parole. Quanti colori e odori si respirano leggendo le prime pagine di questo sorprendente libro e, da lettori per nulla onniscienti, seguendo la corsa di Molly e Ralph – vestito di serge e con bretelle di cuoio – in una carrellata a seguire, avanzando di pari passo con loro attraverso il paesaggio fiorito di aranci della California, che in modo misterioso si apre al loro sguardo, invitandoli nell’intimo dei suoi corsi d’acqua. Il nonno Kenyon è indispettito per tutto quel verde, quella fragranza di fiori d’arancio, la vacuità delle lunghe giornate al centro di una pianura aperta alla chiarezza dell’orizzonte, ama solo l’arroyo che è senza vegetazione e disseccato: per il resto lo circonda una natura madre vera, fonda, ferina ma senza quasi inverni. Contro cui non è necessario combattere per ottenere qualcosa, come invece dovette fare lui nel suo ranch nel Panhandle, quando trovò una sorgente di acqua con una bacchetta biforcuta di agrifoglio anche se tutti lo davano per matto. Ma in questo paesaggio costantemente sotto il sole c’è anche la memoria di una alluvione, che aveva sradicato alberi e sommerso strade e cortili, e ora affonda lenta nei ricordi dei due fratelli: «Dal vialetto d’accesso era arrivato galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tutto, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collettore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro». Un padre morto prima che Molly nascesse; e il suo pensiero più elettrizzante è di rincontralo un giorno, insieme a Gesù, ma solo quando lei e suo fratello avranno già compiuto i 97 e 99 anni di età. Il nonno aveva anche instillato nella mente dei due fratellini, in special modo di Ralph, una passione per l’Ovest, per la sua purezza di cosa a sé stante rispetto a Los Angeles e alla California. In Colorado l’irruenza della natura, le sue selvagge bizze mettono l’uomo alla prova ogni giorno, diceva il nonno, e Ralph voleva rendersi conto di tanta enormità. Man mano che i due fratelli, dopo la scuola, percorrono la strada verso casa, nei sobborghi di Los Angeles, veniamo a conoscere pittoreschi scorci di cortili e case, e gli abitanti del luogo che costeggia il Rio. Per esempio, il giardino fiorito di begonie, di phlox, di fiordalisi e acetosella della signorina Runyon, vegetariana, che è anche – secondo Ralph – la loro postina truffaldina; il suo cane Rover («innocuo come una coccinella») e una giapponese che condivide con lei la casa, la signora Haisan; ma la scrittura si concentra pure su spazi e oggetti significativi per ciò che evocano. E, prima della signorina Runyon, abbiamo già incontrato l’oro degli stolti, la carta manila della signorina Holihan, sulla quale Molly sarebbe stata costretta a disegnare una mela, se non se la fosse data a gambe; e il Rio come origine di presenze misteriose e nefaste quali lo Skalawag. Quest’ultimo termine è un peggiorativo, qui ulteriormente calcato dall’uso della K invece della più consueta C. Era il nome dispregiativo dato ai bianchi degli stati del sud che sostennero la ricostruzione dopo la Guerra di Secessione (1861-65). E sempre la paura, più forte del desiderio di libertà e della curiosità, li costringe infine a imboccare la via di casa. Là li attende la madre, profumata di giaggiolo e pan di zenzero, indaffarata a preparare il pranzo per l’arrivo del nonno dal suo ranch nell’estremo Ovest: come dolce «avrebbero mangiato» anche «amarene e lokum». Tutto questo movimento narrativo e di immagini, di sensazioni, di cieli azzurri e fiori dall’odore tanto intenso da essere – nel suo parossismo – quasi soffocante, è scandito con implacabilità dalle gocce di sangue che Molly e Ralph perdono per una disfunzione ghiandolare, dopo aver contratto la scarlattina. Una epistassi intermittente, che come un refrain scandisce i tempi della loro giovane vita nel suo ruscellante fluire e che ogni poco li costringe a fermarsi «contemporaneamente» con i fazzoletti fradici, per un attimo ingorgandosi, spezzando il filo vivo della corrente, come l’acqua contro un sasso. *** «“Sì! Sì!” gridò Molly, e corse in casa cantilenando la sua poesia. Adesso che lei se ne era andata, Ralph si sentiva perfettamente in pace. Provò di nuovo la strana sensazione di prima e la tenne stretta, come quando si premeva al petto il grosso atlante color grigio muffa. In seguito Ralph ebbe l’impressione di aver avuto, nel corso di quel lungo pomeriggio, un vago presentimento di ciò che sarebbe successo dopo l’arrivo del nonno, ma probabilmente non era vero: era solo il desiderio a fargli apparire così particolari e piene di significato quelle ore, anche se in realtà erano state normalissime». Leggo un capitolo al giorno, non di più. Sono in attesa del puma – come è nella promessa del titolo – che farà la sua comparsa negli ultimi capitoli. Un animale ricco di simbolismo sia in ambito occidentale e cristiano, sia poi per i nativi americani. E se è lodevole la bravura di Jean Stafford nel catturare il divenire della giovane esistenza di Molly e Ralph, sia interiormente che esteriormente, non lo è di meno la perizia e la sensibilità linguistica della traduttrice. Più vado oltre a leggere, più me ne accorgo. Il che rende questa lettura, e ‘pour cause’, assai piacevole. Il rapporto tra Molly e Ralph, i fratelli idealmente gemelli, più giovani delle due loro sorelle, Leah e Rachel, che nel libro partiranno in viaggio per il mondo insieme alla madre sùbito dopo il diploma, vivono in strettissima simbiosi: in una raffinata combinazione di rispecchiamenti psichici, che è tipico di chi ha un legame molto forte, come un dovere inalienabile. Molly si avventura a dire che lo sposerà, nella sua stranezza di bambina e poi di adolescente; di intellettuale che legge continuamente e, quando alza gli occhi dai libri, colpisce gli altri con repentini strali, a voce alta e tagliente, con idee fuori dalle prospettive comuni. Tra le sue idee malsane vi è anche un singolare rapporto con Ralph; lei infatti ripete spesso che vorrebbe sposarsi con lui o con nessun altro. È gelosa delle sue attenzioni per Winifred, una ragazza più grande di lui, che Ralph ha incontrato nella sua permanenza al ranch dello zio, dopo la morte del nonno. Gli fa imparare a memoria delle poesie in rima prive di alcun senso, dei jokes, che gettano nella loro realtà prismatica e immaginifica un dubbio, deviano verso una gioia ideale, o qualcosa di strampalato se non di morboso. Vorrebbe cambiare il mondo intorno a sé e a Ralph; o per lo meno vederlo in modo diverso da come lo vede ora. Lei è alta, bruna e brutta; ha il naso dello zio, grosso e dai tratti poco gradevoli – inoltre, dopo aver contratto la scarlattina, sia lei che il fratello sono di costituzione fragile, con un incarnato giallastro e il viso sparuto, soggetti come dicevo sopra a fastidiose e improvvise epistassi. Se però Ralph, vivendo al ranch, si interessa alla natura selvaggia dei luoghi del Colorado, impara a cavalcare per seguire lo zio su per i canaloni di roccia ed è affascinato dall’idea, un giorno, di catturare un puma; Molly resta rinchiusa nel suo mondo psichico, nelle sue stranezze interiori: e gli stessi pensieri che partorisce improvvisamente non sembrano in grado di cambiare nemmeno la sua vita. Questa differenza è contrassegnata dal fatto che Ralph – al ranch – smette di portare gli occhiali e recupera la vista, mentre Molly no. Albert Camus scriveva nel secondo dei suoi “Taccuini”: «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio». Molly sapeva di essere lontana da questa mèta. Anche la sua gelosia per il fratello è fuori controllo. Quando viene a scoprire che Ralph si è innamorato per la prima volta – se sorvoliamo su un piccolo amore infantile per una compagna di scuola –, e ama una ragazza bionda, si reca nella stanza dove lo zio tiene i becher e le colorate ampolle piene di sostanze chimiche, affascinata di poter contravvenire al divieto materno, che gli aveva proibito di avvicinarsi alle provette, prende una piccola bacinella, vi mette la mano dentro e si versa sul dorso il contenuto di una boccetta, rischiando di perdere una mano. Tutti pensano ad uno sfortunato incidente; ma non Ralph, che sùbito intuisce le ragioni folli di quel gesto. Quindi, dopo un certo momento, il silenzio sarà per Molly l’unica linea di condotta ancora possibile. Inghiottirà amaro e si rifugerà sempre di più in un suo eldorado psichico. Caratteristico di questa svolta è l’immagine di lei che spezza un seme di mela tra gli incisivi. Dopo l’allucinata esperienza che Ralph ha sul treno che lo porta in Colorado dallo zio Claude, durante l’attraversamento di una galleria, là dove il buio è assoluto: una incrinatura o deformazione morale potremmo definirla, che tuttavia non passa inosservata davanti allo sguardo malizioso di Molly: «Molly conosceva la sua natura segreta, malvagia»; sia lui che la sorella, entrambi, fuoriescono da quel tunnel nella roccia della montagna cambiati. Lei è sempre più spinta verso la scrittura, «la sua vocazione autentica», ad estraniarsi dalla realtà per inventare un mondo surreale, come nei suoi racconti e romanzi; mentre Ralph vede in Molly un ostacolo. Rimugina su ciò che è accaduto su quel treno, e si inventa infine una ragione «contorta e scaltra, per averla tradita nella galleria». Confessava a sé stesso di essere stato stregato da una «creatura tenebrosa come lo Skalawag», e si dice, per mettersi l’animo in pace, che lui non era stato capace di spezzare quell’incantesimo. Ecco allora la vendetta di Molly che immagina Ralph che, per aver tradito la loro stretta unione, il loro fantasioso e infantile “matrimonio”, diventa sempre più grasso, brutto e poco desiderabile. E infatti fa notare a Winifred – di cui segretamente Ralph è innamorato – che gli uomini grassi sono orrendi. E anche la sua scrittura è determinata dal desiderio di rovinare la vita di Ralph. Presso lo zio, sia Ralph che Molly fanno delle passeggiate nella natura, raggiungono il bosco, scalano attraversando camini di roccia le prime alture lì intorno. Molly, da autentica bas-bleu addirittura prende l’abitudine di andare nel bosco del Garland Peak a raccogliere in strani modi decine di coccinelle ibernate, rosse moltitudini da inviare all’istituto di entomologia (della Società di scienze naturali) dentro una improbabile serie di scatole di fiammiferi. E poi ha trovato una radura silenziosa tutta per sé dove riflettere e scrivere o leggere. Frequentando i luoghi dove vive il puma, tra lei e quello splendido animale si instaura una sorta di parallelismo, pur nella differenza: perché lei è bruna, ma vorrebbe essere bionda, e il puma o mountain lion – che molti immaginano nero come un lembo di notte – è invece di un biondo dorato. Ralph, anch’egli, si avventura su quelle alture a piedi o a cavallo, insieme allo zio, alla ricerca del puma, una femmina di puma che chiama Riccioli d’oro per via del pelo e del manto tutto biondo. Ma, pur sapendo che vive in quegli anfratti desolati, nessuno è mai riuscito a vederla. Sino a quando, durante una passeggiata con Molly, lui e lo zio Claude non la scorgono presso un ruscello, in distanza ma in un punto ben illuminato. È un attimo, poi lei fugge. L’«animale meraviglioso» si nasconde in un baleno. Dileguandosi. C’è e non c’è. È reale e irreale: quando nei sogni di Ralph appare e lui sogna che «puntava il fucile, le trapassava la testa fiera con quegli occhi diffidenti». Ma questo è anche l’inizio del tragico finale del libro. La critica ha definito i racconti e i romanzi di Jean Stafford una scrittura fatta di buona prosa ma di personaggi cattivi. La cattiveria è però forse un sofisticato escamotage – bello e crudele come le vasche placcate d’oro che Ralph immagina mentre finge di essere sdraiato su di un tappeto al centro dell’atrio del Brown Palace – per rompere del tutto il torpore dell’animo dei lettori e indirizzarli a vedere l’essenziale verità in fondo alle nebbie delle apparenze. Come in una sorta di meditazione tutta letteraria, il lettore, sospinto dalla bellezza della scrittura, va dalle apparenze verso una base interiore: una specie di consapevolezza originaria tipica dell’infanzia. Per esempio: la consapevolezza illuminante che noi non siamo su questa terra per rimanere per un tempo indefinito, ma per imparare, per conoscere la (o una) verità della vita. E per far sì che ogni intuizione o visione di questa verità, come un riflesso di noi in uno specchio, diventi parte della nostra coscienza. Fino a conoscere la realtà, intesa e assunta come base di ciò che esiste, di tutte le cose. Che è anche il modo migliore per fare esperienza – proprio come bambini all’assalto del mondo – della preziosa esistenza umana. Non è una lettura innocua, lo suggerisce bene il titolo: narra in fondo in fondo dell’uscita prima dal loro «Io», di Ralph e Molly, dalle pareti dell’autoreferenzialità, e poi della improvvisa deflagrazione del loro vincolo gemellare, cioè per Ralph, che sopravvive, dal carcere della gemellarità. E questa condizione gli farà perdere ogni punto di appoggio che non sia la sua origine, il suo α τός – che mi ὐ permetto di interpretare come il suo Sé più nobile. E nel senso di un agire che è conoscenza e di una conoscenza che è azione consapevole. Per chiosare: da una azione apparentemente innocente ma carica di residui psichici lasciati in sospeso, come sparare a un animale selvatico, Ralph approda all’antico ma sempre attuale γν θι σαυτόν. Mentre Molly muore – come direbbe lei – in un improvviso inizio di ῶ eternità, perché come il suo parallelo, il puma, della vita sapeva troppe cose. Come scrisse sapientemente V. Hugo: «La vita è una gioia che brulica di delitti». Ma vorrei concludere – ripensando alla situazione di Ralph – con alcuni versi di Giorgio Caproni, altrettanto rivelatori: Mi sono risolto. Mi sono voltato indietro. Ho scorto uno per uno negli occhi i miei assassini. Hanno – tutti quanti – il mio volto.