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Liuzzo: In veglia d’armi e parole – sogno ancora di te ciò che non muore

Antonio Risi

MARIA TERESA LIUZZO, In veglia d’armi e parole – sogno ancora di te ciò che non muore, Reggio Calabria, A.G.A.R. Editrice 2023, Introduzione e Nota filosofica e finale al testo di Mauro D’Castelli, Postfazione di WafaaElBeih, Note biografiche e bibliografiche, pp. 152

Si inizia con un canto primaverile, ritmato e rimato, dove sono protagonisti colori e gioia. Le mummie escono dai sarcofagi come in una scena di resurrezione, diventano spighe, promessa di pane e di gioia. Ma più avanti scopro che si tratta di una primavera falsa e i covoni sono corpi esanimi. In tutto ciò, compare come una danza di vita e di morte, la candela s’accompagna con l’ombra, tematica comune a tutta la poesia liuzziana. Siamo, già coi primi versi, immersi in immagini drammatiche, a forte chiaroscuro. Un alternarsi di buio e luce che prende corpo da immagini ed attività quotidiane che la poetessa trasfigura liricamente, tanto che le ombre sono invase dalla luce (cfr. p. 40) e “l’ombra interpreta la luce” (p. 42). Se la mummia risorge a nuova vita di spiga, il lenzuolo diventa un sudario, nell’alternanza forse necessaria e ineludibile di vita e morte. Il cielo si piega e muore e le pagine starnutiscono fantasmi. Liuzzo trapassa dalla quotidianità ad immagini simbolicamente apocalittiche, dove lo stravolgimento cosmico prelude, come ogni metamorfosi, a nuove nascite: “frecce si attorcigliavano di lampi, / pioveva il seme e dava vita ai campi” (p. 18). Di queste trasformazioni sembrano farsi messaggeri fiori e uccelli: il pettirosso, il colibrì, l’usignolo, la rondine, il corvo, il gallo, il girasole fanno capolino fra i versi come se queste rime fossero rami di un giardino che fiorisce messaggi allegorici. “Era il bosco una scultura di colori” (p. 21); giardino o bosco? Paradiso o selva oscura? Pare quasi che il senso positivo o negativo di questo luogo silvestre muti ad ogni angolo, a ogni svolta di sentiero “tra canto e pianto” (p. 22). Un verso: “fiorivano i limoni a darmi forza” (p. 56) mi fa pensare alla positiva visione espressa da Montale nella poesia “I limoni”, negli Ossi di seppia. Maria Teresa Liuzzo, cavaliera errante, attraversa il bosco, dove il buio trascina “alberi di luce” (p. 31), ora al trotto ora al galoppo, secondo che il vento – il quale spesso cambia direzione (p. 22) – le porti profumi o tanfi. Perfino l’ora è, metaforicamente, una “donna in fuga su cavallo” (p. 55) Questo avanzare incerto, ora cauto ora celere, lo si riconosce nel ritmo e ancor più nelle rime, “figure barocche dipinte sulle brocche” (p. 39), che ora s’accavallano, ora s’allentano: baciate, alternate, incatenate, poste al mezzo… significativa la consonanza “foce-pace”: “tutto nacque quel giorno dalla foce, / possa l’antrace un giorno darti pace” (p. 32), dove la foce, punto d’arrivo (ma anche, in questo caso, di inizio) di un simbolico fiume, è anche pace, composizione armoniosa di contrasti e dissonanze. In questo percorso erratico iniziatico (“mi trascina la mèta a guerreggiare / come un viandante in cerca della luce”, p. 25) il Tu caratteristico della poesia liuzziana è un essere onnipresente che blandisce e divora, sicché il mondo appare “assorto in una luce di dolore” (p. 17), e ancora: “una luce dolorosa” (p. 18), e oltre: “luce di dolore” (p. 50). Ossimoricamente, la luce, elemento positivo, è associata al dolore! Ma si veda anche i “Cadaveri abbracciati come fiori” (p. 28), un verso magistrale che unisce l’orrido al grazioso.La “notte in minigonna” che “prega gli amanti” (p. 32), ma anche “pozzo per gli amanti” (p. 33), tempo di veglia dei cavalieri, diventa una sorta di banco di prova: “Su chiodi stanotte ho camminato” (p. 55), un tempo del silenzio e della meditazione dove gioie e dolori, fatti e persone, sogni e ricordi s’ingigantiscono acquistando drammaticamente peso e consistenza: “La notte s’impadronisce dei miei spazi” (p. 67). Ma forse è proprio la capacità di resistenza a questi fantasmi, diavoli, draghi, a far meritare alla poetessa l’investitura cavalleresca. Maria Teresa Liuzzo sa che dopo l’investitura seguita alla veglia d’armi dovrà combattere contro un mondo ostile superbamente, romanicamente descritto nell’opera: “Nella bara il silenzio riempie i calici, / sul limite basso dell’arcosòlio / trascina il fiume l’ombra curva dei salici” (p. 38); “impiccano cadaveri d’ombre le onde” (p. 54). In questo mondo distopico, dove anche l’alba spunta con accenti drammatici, non può esserci “nessuna sintonia tra occhio, sorriso e arte” (p. 39). La poetessa sa che “l’alloro del poeta è pane duro, / chiodi sotto le scarpe” (p. 62); torna l’immagine dei chiodi, ad indicare le difficoltà del percorso di iniziazione ed investitura, ma la poetessa non teme “le serpi del tramonto” (p. 67).

Difatti, siccome “ogni testa è una foresta” (p. 22), ritornano incubi e fantasmi, in particolare le megere, presenti in E adesso parlo, L’ombra affamata della madre e Non dirmi che ho amato il vento. Maria Teresa Liuzzo ripropone anche il particolare ritmo, stavolta esplicitato con gli accapo tipici della poesia, che erano già presenti nella prosa della trilogia narrativa. Mi piace immaginare, allora, che il Tu di questa raccolta è un’ipostasi di Raf, protagonista della Trilogia, ma un Raf che, se nella fiction narrativa era un personaggio fra gli altri, qui, nella realtà poetica, diventa intimo referente della poetessa, quasi incarnandosi nella natura stessa del bosco-giardino: “stanotte, ho sentito sprofondare la vitanei tuoi occhi, / ed ero cigno, dentro un lago d’aria e di balocchi” (p. 24). Il cigno ricompare anche alcuni versi più avanti: “Cigno ed eroe fu il cuore sul mio viso, / noi sapevamo dov’era il paradiso” (p. 30). Il rapporto fra il Tu e la poetessa è adombrato anche dal celebre mito di Amore e Psiche: “— Sono io la tua donna, sono Psiche. / — E tu, tu sei il mio solo Amore!” (p. 36).Torna anche Mia, trasfigurata in foglia dentro versi aurei per significazione iniziatica: “La foglia è una bambola scucita, / appesa ad un ramo senza pianto. / Sono la notte, osservo Berenice: / addio mito di Orfeo e di Euridice” (p. 28). Qui, tuttavia, avviene una sorta di generalizzazione, per cui la bambola Mia diventa simbolo di ciò che tutti noi siamo: “Fasci d’erba siamo, muschio che risale / contro corrente dall’anfora del tronco, / e al cielo innalza gli occhi del peccato, / incubo dismesso e poi riciclato. / Bambole deformi come ombre, / aritmie di croci sopra le tombe” (pp. 28-29). È per via di questa trasposizione di Mia nell’intera umanità che la poetessa può dire: “tu, sei mio figlio!” (p. 29), e anche: “nella notte tu eri amante e figlio. // Mai mi sei mancato e sempre ti ritrovo / nel buio fitto della mia amata luce” (p. 108). Il personaggio Raf non è stato, forse partorito dalla mente della narratrice Liuzzo? Ecco, dunque, che la stessa notte diventa tempo mentale: “Sei la notte che avvolge i miei pensieri” (p. 29). Un tempo meditativo dove acquistano rilievo le parole: “fresche e chiare di sorgente” (p. 106), che diventano protagoniste animate, fate o folletti, anche nelle loro parti costitutive di vocali e consonanti – “sillabe balbuzienti itineranti” (p. 57) –, oppure la parola, nella sera, è filata da un ragno “appeso ad una treccia d’oro” (p. 54). Muoiono, anche, le parole: “Raccoglie cimiteri di parole la mano del becchino” (p. 43). Bello anche dove la poetessa scrive: “sono tutti i miei risparmi, le parole” (p. 80). Eppure la parola non esprime tutto: “Mistico rimane il mio non detto / come un gioiello dentro il cofanetto” (p. 42): esiste un mondo che si stende oltre le parole, e tocca al lettore, se ne è degno, aprire lo scrigno prezioso…

Ma se uno scrigno è prezioso, senza prezzo è il suo contenuto, come avviene coi reliquiari. Il ricco cofanetto di Maria Teresa Liuzzo racchiude un sentimento: l’amore, come ha perfettamente intuito Mauro D’Castelli: “Il mondo, credo di interpretare il pensiero liuzziano correttamente, inizia nell’amore e così finirà; è questa la profezia buona della sua poesia” (p. 133). Mi accorgo che, via via che proseguo nella lettura di questi versi, la veglia d’armi sfuma in una veglia d’amore, in pieno accordo con l’etica cavalleresca che voleva il cavaliere ligio a una dama, anche se nel nostro caso le funzioni maschili e femminili sono invertite: “Leggero pòsati come un geranio bianco / ora che patria del mio cuore sei; / sollevami come l’aria fa coi polmoni / quando l’auriga splende / tra i suoi cavalli bianchi; / d’azzurro inondami, / ora che sei mare!” (p. 62). È un amante presente/assente, quello cantato dalla Liuzzo, ma tra la dama intoccabile, irraggiungibile e spesso anche innominabile dei cavalieri medievali e la concezione moderna del rapporto amoroso c’è una differenza abissale: per noi l’altro(o l’altra) non è più intoccabile. Ora, siccome non si possono ignorare le tradizioni letterarie, Maria Teresa Liuzzo è costretta a trasformare l’intangibilità, che idealmente purificava il rapporto di fedeltà fra il cavaliere e la dama, in una presenza irraggiungibile, che mi ricorda l’episodio di Enea che incontra l’ombra della moglie Creusa: tre volte tenta di abbracciarla, ma per tre volte stringe l’ombra vana. Ecco, questo amato che è cielo, mare, natura, universo, è però inafferrabile come certi sogni che, nell’accorgerci che siamo in procinto di svegliarci, vorremmo trattenere con tutte le nostre forze: “Io ti trattengo come un crepuscolo / per non spezzare l’incanto, / amore vivo nell’eterna luce: / tra le mie labbra mute ti faccio ostaggio” (p. 62).Nella presenza dell’amato il mondo splende, in un indistinto congiungersi degli elementi che ricreano armonia, ma nell’assenza dell’amato tutto appare buio, frammentario, disarmonico. I versi, pertanto, si susseguono a onda, come se Maria Teresa Liuzzo volesse trasfondere in noi un’esperienza di emersione ed immersione, un elevarsi ed inabissarsi che sostanziano la vita di noi tutti. E tuttavia un punto fisso, il Tu, l’amato, sembra orientare questi sbalzi: “Tra luce e abisso rimani un punto fisso” (p. 81). L’amore permette alla poetessa di inventare il sole nel dolore più fitto (cfr. p. 84). “Inventare il sole”! Comprendo ora perché in questa raccolta si parla di veglia d’armi e parole: è la parola a permettere a Maria Teresa Liuzzo di inventare, o reinventare, o ricreare l’amore assente; è la parola che forma sentieri, che mette radici, che esprime l’oltre a cui sempre aspiriamo, a creare l’intero universo emotivo che attraverso la poesia si apre davanti ai nostri occhi. Il poeta è come il Creatore della cabala, che dal suo nome crea l’alfabeto, dall’alfabeto trae i nomi e da questi tutto ciò che esiste:

Che sia Poesia

imprimitura d’assoluto

da aggiungere alla vita

come innocente enigma

e duri anche un solo giorno:

ecco il premio più grande,

il più bel sogno! (p. 88).

Mi pare che questi riferimenti alle parole, pur se presenti in tutta la silloge, si fanno più fitti verso la fine, come se l’universo fosse riassorbito in nomi, parole, sillabe e segni in una sorta di creazione all’incontrario (o è quella la Creazione che va per il verso giusto?). Si infittiscono anche i riferimenti a Gesù, Parola che non passa mai. Toccante è anche la fiera umiltà che leggo in un verso semplice e metaforico insieme: “sono matita e traccio la mia mappa” (p. 98). Madre Teresa di Calcutta si definiva una matita nelle mani di Dio; Maria Teresa Liuzzo va oltre, perché si riconosce la capacità di tracciare la sua mappa. Pur essendo una matita, si hanno tante possibilità di lasciare una traccia di sé, sia pur cancellabile. Ed è proprio il confronto con la Parola eterna di Cristo a riscattare anche le nostre fragili parole scritte a matita, perché è il significato che sta oltre le parole a dare loro un senso duraturo.

Se, come scrive WafaaElBeih nella Postfazione, “Una veglia, un’attesa fra ‘armi’ e ‘parole’, ‘guerra’ e ‘pace’; ogni termine richiama l’altro, mentre la poesia abbraccia ambedue” (p. 136), grazie alla parola Maria Teresa Liuzzo può vincere la guerra: “Se l’alfabeto è il mio grande generale, / libererà il suo esercito dal male”. La poetessa adotta una strategia di guerra: “le parole / sistemavo come livree di soldati” (p. 108), perciò nella veglia d’armi e parole è la parola a vincere, perché “la parola è più veloce di un’arma” (p. 98).Per questo possiamo considerarci risorti e contrapporci ai morti: “I morti camminavano nel bosco, / trascinando fogliame nero di pagliuzze / e noi risorti su punte di diamanti / nell’immutabile innocenza della luce” (pp. 103-104).

Nel tempo in cui ho letto questa silloge mi è accaduto di ascoltare il Vangelo della domenica: parlava della trasfigurazione di Gesù. Un passo mi ha colpito, perché lo si può ricollegare alla poetica liuzziana: “Una nube luminosa li coprì con la sua ombra” (Mt, 17, 5). Dionigi l’Areopagita, commentando questo passo evangelico, ha definito Dio una “tenebra supersplendente”. Allora la veglia esprime la speranza di vedere l’alba, quando gli autentici sogni potranno inverarsi. Lascio il lettore con questa riflessione mistica che mi sembra la miglior conclusione per la recensione di questo libro.

Il volume, com’è usuale nelle edizioni delle opere di Maria Teresa Liuzzo, è arricchito dalla dotta Introduzione (pp. 5-9) e da una Nota filosofica e finale al testo (pp. 111-134) di Mauro D’Castelli, chesottolinea il continuo passaggio dal buio alla luce e il collegamento con Danza la notte con le tue pupille.D’Castelli è anche autore di alcune note di commento ai passi più ardui. A chiusura del volume troviamo una Postfazione (pp. 135-139) di WafaaElBeih, “Ordinario di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea. Già Direttrice del Dipartimento di Italianistica presso la Facoltà di Lettere, Univ. di Helwan Al Cairo. Prof. di Letteratura Comparata presso Università ‘La Sapienza’, Roma” (p. 139). Le Note biografiche e bibliografiche (pp. 140-148), confermanol’importanza dell’autrice, testimoniata dalla nutrita letteratura critica.

 

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