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AL LIBRO MIOSOTIDE DI MARIA TERESA LIUZZO

SAGGIO DI BRUNO FREDDI

 

 

 

Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio

e un fremito mi ha sconvolta…

e le mie mani stillavano mirra,

fluiva mirra dalle mie dita

sulla maniglia del chiavistello…

(Cantico dei Cantici IV, 5, 4-5)

 

Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,

riposa sul mio petto

(Cantico dei Cantici I,1,13)

 

Ci è venuta subito in mente la bellezza poetica del Cantico dei Cantici mentre procedevamo nell’avvincente lettura della densa silloge lirica Miosòtide di Maria Teresa Liuzzo, acclamata poetessa reggina.

Il libro, che in copertina mostra la tela Saffo e Faone di Jaques Louis David e sul retro offre la bella immagine dell’Autrice, evidenzia, in apertura, ‘ante omnia’, il positivo Giudizio critico dell’illustre Giorgio Bárberi Squarotti, dove vengono poste in rilievo le doti liriche della Liuzzo; ad esso fanno seguito la sentita Presentazione dell’Editore, anche rivisitazione di miti della sua terra, e la dotta Prefazione di Mauro Decastelli. A chiusura La Freccia Immobile – La Poesia di Maria Teresa Liuzzo come Presenza Assoluta, un Saggio del Prefatore Decastelli, molto interessante per il discorso filosofico/estetico/teologico, per i riferimenti ai Testi Sacri, dimostrativo il tutto dell’assunto posto. Seguono tante pagine di accreditate firme avvaloranti l’autenticità della poesia di Maria Teresa Liuzzo, ed inoltre ricche note biobibliografiche, testimonianza anch’esse dell’ampio consenso tributato alla Poetessa nel corso di decenni.

Ma, perché proprio il Cantico dei Cantici? Il poema d’amore dell’Antico Testamento – poco importa se il dialogo in cui l’un l’altro si dichiarano il proprio cupio avvenga tra Salomone e una fanciulla o tra due sposi – è d’incomparabile bellezza per intensità di sentimento, per un susseguirsi di metafore che portano in una realtà immaginifica, di sogno. Il Cantico allontana infatti quanto è presente in altre parti dell’Antico Testamento, quasi spina dorsale nella narratio di peccati delitti guerre e genocidi; dimentica anche colpe e ire divine, accantona conquiste di terre e vendette per parlare soltanto d’amore, di carezze soavi, più deliziose del vino, di labbra che stillano miele, di latte e miele sotto la lingua dell’amata, di profumi che inebriano, di tutta la natura che dà piacere, ed è perché l’altra parte è divenuta attesa di piacere, gioia di vita nell’amore.

L’interpretazione allegorica dell’ebraismo e del cristianesimo – sposo/Dio, sposa/Israele e sposo/Cristo, sposa/Chiesa – sembra cedere di fronte alla lettura che di per sé avvince, captatio della bellezza di un amore anche fisico, e nel sentimento/sacralità può ritenersi lungi dal doversi definire ‘profano’.

Un amore che sembra non avere l’impronta della concezione occidentale, di come nella cultura di questo nostro mondo è stato da sempre inteso, a partire dall’età classica sino alla poesia trobadorica e oltre; un inseguire il mito dell’amore/passione al di fuori della sfera matrimoniale dall’impronta istituzionale e per la quale vigono solo leggi, ad amare più che l’altra parte l’amore in sé, vertigine, abbandono, aspirazione all’unità che finisce con l’avere la sua realizzazione nella morte. Tristano ed Isotta, ad esempio, agiscono per una consacrazione dell’amore proprio in tutto ciò che si oppone all’amore, per una esaltazione che non può essere se non nel dolore e nella morte. Un amore impossibile, fatale, che altro non è se non fallimento, qualsiasi decisione si scelga; una condanna alla infelicità, alla morte. Tale sarà anche la sorte degli sposi adolescenti Giulietta e Romeo nel dramma di Shakespeare, vicini, solo per certi aspetti, ai giovani del Cantico dei Cantici, che nella gioia d’amore sembrano far propria realtà l’amore sognato.

Anche le liriche di Miosòtide sono pregne di una forte carica di sensualità che sottende il sentimento. Bastano pochi versi a far balzare il connubio di cui è fatto l’amore liuzziano, un ribollire di carne e sangue che non si esaurisce in sé, sorgendo da spirito e cuore, ed il tutto risulta perfettamente congiunto, fuso.

Il bacio è, per esempio, di “neve e fuoco”, fende la mente, diviene realtà liberatrice: “Il desiderio che leggi | nel mio sguardo, le parole | appena sussurrate, i palpiti | che trai dalla terra e l’onda | e le correnti | che mi porti dal mare | ti fanno frutta matura | nella mia bocca, | nella morsa delle labbra, | miele e latte che sgorga | dalla polla del tuo amore, | incomparabile | dono d’attesa” (p. 56).

E balzano improvvise le immagini traslate, si generano l’una dall’altra rincorrendosi con sorprendente agilità, ed il canto d’ amore si fa gemmato di gioiose metafore. Sgorgano dal connubio di terra e cielo, di mondo umano e arboreo-floreale nella accensione visiva e olfattiva di colori e profumi, nella sorprendente fusione dove può il tutto essere contenuto, per riemergere poi nella strabiliante forma nuova che altre rincorre sollecitando immagini, tutte a tal punto piacevoli da ingenerare dimenticanze e farne perdere l’avvio, il pensiero che sembra retrocedere di fronte a tanta bellezza immaginativa.

Una immaginazione veloce, copiosa, con una inesauribile ricchezza di modi e forme che non può non sorprendere: “Riprendeva il suo corso | l’ora ventosa, | allorquando il tuo cuore | oscillava sugli steli | e il palpitare era soltanto | eco d’amore, il segno | dei nostri corpi | avvinti nella notte. | Altre memorie, poi,  | indossavano | golfini di pioggia, | arcobaleni | sopra la pelle nuda | e ti bevevo come | se fossi acqua di ruscello | a placare la sete | e lo stupore. | Indossavo il bronzo del tuo corpo,… | ed a te mi cucivo | con un filo di seta, | ai confini | del sogno e del reale” (p.58).

Poetessa che nel filo d’oro della sua immaginazione fervida ricama metafore con sorprendente naturalezza nella molla del sentimento, e mette in atto la procedura scritturale che è sua ispirazione per una più significativa scrittura di sé, del suo mondo interiore, abbraccio non solo del proprio sé.

Potremmo, del resto, immaginare il linguaggio senza la metafora, quel genus, oggetto, sin dall’inizio dei tempi, di riflessione filosofica, linguistica, estetica, psicologica di cui, come diceva il Venerabile Beda tutti gli altri sono tropi?

Simbolo, archetipo, sogno, desiderio, delirio, mito, creatività, paradigma, icona su cui si sono scritte pagine a migliaia. Ed in questa nostra era di scientifismo viene considerata quasi salvezza per l’homo technologicus, disancorato dal bello autentico che è creatività. Può la poesia esistere senza metafore? senza la parola incarnazione del dato poetico? Tutto attraverso essa si velocizza, pur se talora avviene nella oscurità, nell’ambiguità, nei fraintendimenti, nei segni interpretativi che possono rendere possibile ogni ‘sema’.

Giovanni Mosca nel Bertoldo del 30 giugno 1939, nell’intento quasi di dilettare con il fine umorismo che lo caratterizzava, faceva il tentativo di commentare qualcuna delle poesie ermetiche di Ungaretti, mostrando chiaramente la sua difficoltà di fronte a certe arditezze metaforiche che la cultura del tempo stentava a fargli accettare. Ma Ungaretti resta, indipendentemente dalle riflessioni di Mosca, poeta da tutti riconosciuto. Può infatti il poeta, nel momento della ispirazione, mettersi a riflettere per temperare certe arditezze?

Non è la metafora un procedimento che passa dal come se al come è (Ricoeur), un passare della parola ad una pluralità di sensi, eventi acustici, tattili e visivi, lasciando l’ovvio e il banale per farsi portatrice di una sovversione che sorprende e incanta?

Già Aristotele aveva detto che le metafore hanno la capacità di mettere le cose sotto gli occhi (Retorica); ed aggiungeva che spostare il concetto da un ambito ad un altro, quello estraneo, può o entrare con esso in conflitto o dimenticare la sua diversità e divenire un tutt’uno. Certe metafore ardite non fanno dimenticare la diversità e restano sicuramente in conflitto, ma noi diciamo che, generando la bellezza dell’inusitato, trascinano in un mondo immemore della stessa concettualizzazione per lasciare affissi ad una incantevole lente dove colori suoni e sapori si mescolano e fondono.

Canta la Liuzzo “… se m’accarezzi, | mille vulcani | in me esplodono, | tutte le navi del mio cuore | travolgono i gorghi, | ma poi se le tue labbra | io assaporo, | sono come una vela | che la brezza spinge, | sono l’ala | gioiosa che dipinge | l’azzurro e si fa stormo”(p.85). Una serie di metafore dove la bellezza è nel farsi bellezza terrena, nell’attuare quel che Aristotele diceva.

Ed anche Croce in La poesia di Dante sostiene che il linguaggio è metafora e i nostri affetti si esprimono con le metafore.

Cambiò il linguaggio rotta nel Medio Evo, dovendo il tutto rimandare a Dio, divenire allegoria; sarebbe dall’Umanesimo in poi tornata forza di poesia terrena, quella che sentiamo vibrare anche in Miosotide. Non deve per Shelly il poeta essere vitalmente metaforico, mostrare le relazioni delle cose che non sono state in precedenza percepite? La metafora è pertanto capace di far apparire e quindi essere, attua il passaggio da uno stato esistenziale, quello del pensare, a un altro, quello di apparenza tra le apparenze. (H. Harendt, La vita della mente).

La poesia dunque, attraverso la metafora, dono della immaginazione, può realizzare il paradossale, l’irraggiungibile, ritornare al percepire/ascoltare primigenio, aurorale.

Ascoltiamo la Liuzzo: “Più della spada l’emozione affonda | nel sangue ribollente più del mosto | e meno crudo del dramma della vita. | Ma se m’accarezzi come una margherita, |petalo dopo petalo, indagando, | giungendo al giallo ocra del suo cuore, | se mi fissi nel tatuaggio lilla della viola, | slaccio ancora il mio vestito d’ombra. | Vieni in me, non deludere l’attesa”. (p.64)

Ma la Poetessa non canta solo il fuoco d’amore che dà piacere e gioia; il suo è amore andato oltre l’iniziale incantamento dell’innamoramento, per farsi, di volta in volta, nuovo incantamento dove affiora la coscienza dello stesso, quella percezione dell’essere e del non essere che caratterizza questo sentimento.

Come non caricarsi allora anche di sofferenza e dolore nel vissuto di vicende che in questo particolare diario d’amore risultano sfiorate con delicatezza, ma ugualmente portano le stigmate della sospensione, dell’angoscia? Con una sensibilità tutta femminile la Liuzzo canta l’attesa e si scontra con la dicotomia maschile, Logos che può divenire carente sul piano affettivo. Canta la passione, ed è tutta nel suo significato etimologico, quella che Epicuro consigliava di tenere lontana poiché, contrastando lo stato di quiete/serenità, non può che generare danno interiore. Ma la passione prende donne e uomini, neppure l’essere maschile riesce a sottrarsi nella presenza di un Eros che tutti travolge, volenti o nolenti (docet l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto), ed è in ciò il quid caratterizzante l’umanità in toto, femminile che sia o maschile, miscuglio sempre di Logos e di Eros.

Rileggiamo alcuni dei suoi versi pregni di dolore: “Mi sembrava che tu portassi il sole | nelle pieghe del foglio, qualche seme | da gettare nei solchi del mio cuore, | qualche effluvio che al mare si fondesse | e mi aprisse alla vita e al tuo amore. | E così strinsi nel pugno quella | che credevo una gemma, tale | intesi il tuo foglio arrotolato | e non compresi quale lama avesse | per squarciare il mio cuore!” (P.44).

Ci è venuto in mente anche il Simposio di Platone, abbiamo meditato su Eros che, dopo lunghissima indagine, ancora non toglie l’interrogativo di sé: “Ma cosa sarebbe allora, esclamai, questo Amore? un mortale?”.”Niente affatto”.”Ma allora cos’altro è?”. “Come nel caso di prima, qualcosa di mezzo tra mortale e immortale”.”Che è dunque, Diotima?”.”Un demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo tra il dio e il mortale”

Nel ben noto passo del Simposio, di cui abbiamo riportato solo un brevissimo stralcio, Platone demanda alla dotta di Mantinea la propria concezione di amore/Eros; così Diotima, rispondendo a Socrate, fedele anche in quest’opera all’immagine di una ignoranza costruttiva, spiega che Amore è un demone partecipe della natura mortale e immortale, parla del sentimento che prende con forza l’amante e fa soffrire e delirare. Eros, figlio di Poros e di Penia viene dunque presentato come frutto del desiderio di ciò che non si ha, tormento nella ricerca del possesso dell’amato.

Mentre scorreva la nostra lettura dei versi di Miosòtide – in quel ‘non ti scordar di me’ percepiamo già, nella delicatezza tutta femminile, l’interiore strazio dell’amore che può subire anche la dimenticanza – non potevamo non segnalare in certe liriche il tormento insieme all’estasi. E non solo: intravvedevamo la ricerca di una realtà universale, trascendente una comunicazione che può farsi dubbio, di un senso meno incerto da dare al rapporto io-tu.

Rapporto che in Eros non può non staccarsi da una perdita, quella della libertà, mentre dona all’altro libertà. Reciprocità impossibile – rifletteva Sartre – di un progetto di fusione assoluta di due infiniti. Dove cercare maggiore certezza nella coscienza della incertezza?

Ed ecco le accorate implorazioni della Liuzzo alla poesia, la richiesta ad essa d’amore. Ma cos’è poi colei cui si rivolge?

E’ “liberta e prigione,  | nel cipresseto | della clausura…”, liberazione dalle “morte notti”, pur se ancora una volta a predominare è il tormento. Ella aggiunge che non deve essere risparmiata “alla carne la croce |… ché da essa | trae vita la parola” (p.78). C’è in definitiva un permanere in quel desiderio d’amore come estasi e tormento, un imbrigliare nella fusione di quel momento anche la parola che solo di quel momento può essere parto.

La parola diviene quindi il primo passo per sublimare, e l’oggetto spirituale dell’estasi/tormento si fa parola, quella in gran parte metaforizzata che riesce a spegnere la concettualizzazione del tormento lasciando spazio alla meraviglia immaginifica.

Non è di certo un tentativo disgregativus, se si fa tramite per un’ascensio ferens dalla parte all’intero, dalla rivelazione naturale di un Eros che può farsi anche distruttivo( il virgiliano omnia vicit amor ),il sarchico paolino, lacerando la persona, riducendola a brandelli, depotenziando la sua unità e il suo stesso desiderio di unità, di compimento perfetto nella pienezza della vita e dello spirito, alla rivelazione dell’ Eros spiritualità, eternità. Quello sarchico diviene amore che non è più volontà amativa universalis boni, né intelletto volto all’ ens universalis, di risonanza tommasiana; resta pagano in Tristano, toccherà limiti estremi in de Sade, in Wagner, nei seguaci di Nietzsche, in certe derive decadentiste e trasgressiviste.

Un amore che è cieco strumento della volontà non potrà mai estendersi progressivamente ad abbracciare l’umanità, pervenire alla unità fra uomo e Dio. Come attuare l’oblio nell’altro se stesso per ritrovarsi in esso, se l’amore non è in grado di farsi agape? Dovrebbe annullare la logica del do ut des per divenire un modello che implichi il dono gratuito, attuare il passaggio dall’eros realizzazione antropocentrica di sé attraverso il generare fisico, l’arte o la filosofia – così è stato sin dalle lontane ere nelle diverse culture, non esclusa quella greca –, all’amore donazione disinteressata, altruistica, gratuita di se stessi, com’è l’amore di Dio per gli uomini, presente solo nel Cristianesimo, in nessun’altra delle religioni. Agape non è la pietà che implica il semplice coinvolgimento sentimentale ma amore del dono, piena consapevolezza della sua legge. Solo in questo senso si può realizzare l’amore/unità tra uomo e Dio, di cui tornò a parlare Bergson riprendendo quella linea di amore/unità assoluta, che era stata di Spinoza, del Romanticismo, di Hegel, di Feuerbach.

E’ con esso che la solitudine si allontana, più non tange nella percezione di una presenza infinita che di essa ci fa parte; quella solitudine da cui talora è presa la Liuzzo, e le genera dolore d’abbandono, per esempio in una stanza d’ospedale: “… ma nessuna ombra o luce | attraversa la notte, nessun corpo | è accanto a me che mi riscaldi. | Guardo in fondo alla stanza | al di là della finestra: la vetrata | riflette stelle lontanissime, la luna | appare avvolta in rosse nebbie”. (p.43)

Altrove sente più forte la presenza della Divinità, quasi Deus agostiniano che abita in interiore animo, e sembra riempirla tutta di sé: “Dio, eterno e sconosciuto, nel silenzio | T’ascolto e un segno Tuo tra le mani | ricerco, mentre il cuore è già giara vuota | da colmare. | Ineffabile amore a Te mi lega, | che mi avvince e fonde nella Tua luce”. (p.27)

Sembrerebbe la Poetessa avviarsi ad una lontananza da Eros, ma subito dopo ritorna in lei la bellezza dell’estasi/tormento terreno: “Anche altro amore dà senso alla vita, | ridesta i sensi, dà nuovo vigore, | … è fuoco e frescura, estasi e tormento, | ma vita sempre, luce nelle notti | più oscure, nostalgia che ci conforta |…”.(p.27)

Il percorso che brama è anche vita nelle braccia di Eros, amore sensuale, estasi e tormento che può darle il solo uomo che amò, ma ciò non si fa negazione di spiritualità alta.

In lei nessun dissidio tra amore sacro e amore profano; quel dissidio che ingenerava in Petrarca, per esempio, una costante condizione di crisi, la contraddittorietà di un agire e sentire, che il Poeta stesso riconosceva ma di cui poi finiva per compiacersi.

Nella Liuzzo rileviamo il naturale esistere di entrambi, senza nessun senso di disarmonia. Non è del resto il suo amore benedetto dalla stessa Divinità, non si effonde il canto in piena gioia dei sensi come nel Cantico, nelle meravigliose storie d’amore di un Oriente lontano da certe visioni dell’Occidente?

Rileggiamo la ritrovata armonia tra mondo umano e divino nei seguenti versi che ci sembrano racchiudere il pensiero della Poetessa di Reggio: “Lo stesso mare e il mondo immaginato, | scorgo nella magia dei tuoi occhi, | se il desiderio si fa colore e suono, | prolunga la vita e la fa eterna | con un refolo d’amore, che fa muovere | e vibrare di tenerezza i gerani | e ci dice che è vero solo il tempo | che agita il sangue e cattura il senso | profondo dell’esistere. La morte | allora è vinta dai rossi tramonti, | dagli acquerelli della fantasia, | dall’attesa dell’alba che annuncia | il tuo arrivo, mio Dio: in Te la storia | da vivere e da scrivere nel tempo”. (p.26)

Tutto un vibrare di emozioni, grande lontananza dalla cultura dell’indifferenza che oggi impera attorno a noi e rende opaco il vivere. Abbiamo riportato la poesia interamente: ogni verso, anzi ogni parola s’incastona di necessità a rendere perfettamente il pensiero della Poetessa reggina, quell’armonia tra Terra e Cielo che solo d’amore è frutto, ed è proprio con essa che l’esistenza ha senso, canta il peana sulla morte.

La poesia di Maria Teresa Liuzzo non è dunque solo danza di metafore in una ricchezza di modi e forme inesauribili e sorprendenti che captano attuando il dilettevole transfert verso un mondo immaginifico, è anche sentimento forte, vis che oltrepassa gli argini per manifestarsi nella sua autenticità, ed è pensiero alla ricerca del senso dell’esistenza nell’armonia celeste e insieme terrena.

 

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