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Klara Kodra: L’uomo “colui che realizza i sogni di Dio”

PREFAZIONE

PROF. DR. KLARA KODRA

 

Il filosofo ebreo A. Heschel ha definito, sinteticamente ed entusiasticamente, l’uomo “colui che realizza i sogni di Dio”. Potremmo osare di aggiungere che per alcuni eletti Dio ha sognato che fossero poeti. Sadik Bejko é “colui che realizza i sogni di Dio”. Sadik Bejko è di quelli, appartiene alla schiera dei poeti veri, dei poeti originali, non degli artisti di tavolino.

Manifestò questa sua originalità fin nel primo volume della sua gioventù, “Le Radici” (1972), radicato nel terreno solido e fecondo della sua infanzia e adolescenza, nei suoi sogni di avvenire, nel suo legame indissolubile con il luogo nativo.

Il Bejko è dei poeti albanesi che non ruotarono come satelliti attorno ad alcuno dei tre soli dell’avanguardia poetica degli anni Sessanta, Kadare – Agolli-Arapi. Appartiene a quella generazione poetica degli anni Settanta che sbocciò e crebbe i suoi fiori all’ombra dei grandi poeti della generazione passata.

Non fu quindi un poeta d’avanguardia e non conobbe lo splendore di una fama improvvisa nella poesia albanese come i suoi illustri predecessori. Conobbe però una lotta ardua con il rigore delle regole imposte alla poesia dalla dittatura “socialista”, le regole del cosiddetto “realismo socialista” che non era nella sua essenza, nè vero realismo, né pervaso da ideali veramente socialisti. Non poteva essere paragonato alla poesia dell’Aragon, del Neruda, di Nazim Hikmet, i cui ideali -socialisti o comunisti – erano proiettati nell’avvenire.

Avrebbe dovuto fondere realismo e romanticismo, secondo l’ideale utopico del Gorki che l’aveva esperimentato per primo con il romanzo “La madre”.

Era divenuto in realtà un nuovo classicismo, con regole maggiormente rigide del classicismo storico, una dottrina letteraria, come abbiamo già osservato, non programmata dagli autori medesimi, ma imposta dal Partito Comunista che si identificava con lo Stato.

Gli autori mediocri l’avevano abbracciato con entusiasmo come un abito di cerimonia con cui rivestire la loro mediocrità. Per gli autori di talento questa scuola o dottrina letteraria era un letto di Procuste. Però essi si adoperarono per trasformarlo in un’armatura per celare elementi di realismo e perfino di modernismo. Il substrato di questa poesia doveva essere una forma di “dissidenza estetica”, di lotta “clandestina” con la severità della dittatura, proiettata anche nell’arte. Gli autori albanesi degli anni Settanta combatterono questa lotta, affermando una poesia della quotidianità, una poesia delle “piccole cose” che ricordava il crepuscolarismo italiano, ma con un vigore ed un’ardore interno maggiori. Era una poesia che zampillava lirismo. Era, contemporaneamente una poesia che, sfuggendo la retorica politica dominante nei cosiddetti “grandi temi” politico-sociali, si rivolgeva agli eterni temi esistenziali dell’amore della natura, della morte, considerati a quell tempo, temi “minori”.

I migliori poeti degli anni Settanta vissero questa esistenzialità. Ciascuno forgiò le sue tecniche espressive che corrispondevano al proprio mondo poetico.

La poesia di SadikBejko è particolarmente fine, dal suo lirismo traspare, di volta in volta, un ribollire di sentimenti di amore, di compassione, anche di ribellione e di odio, non vi mancano neppure le liriche “solari” come “C’È IL MARE”una lirica tutta pervasa dall’ebbrezza dell’amore e della vita, una lirica ricca di linfa vitale. L’immagine del mare, presente in pochi poeti albanesi come l’Arapi o lo Zeqo, è effetivamente rara poiché la maggior parte di essi preferisce il simbolo del monte (Kadare) o della vasta pianura (Agolli).

Essa è però una delle immagini predilette dal Bejko, accanto a quella del fiume. L’elemento tradizionale cosmogonico acqua è una parte integrante dell’universo poetico del Bejko ed esprime, di volta in volta, la vitalità, la catarsi, il flusso eterno della vita in cui i fiumi corrono verso il mare, per fondersi in esso. Nella poesia “IL FIUME” si nota questo scorrere eterno, ma è presente anche la città, creazione umana, con le sue luci che sono amate dal fiume, secondo un felice verso del poeta.

Il trio fiume – città-mare, trio realistico ed oggettivo, è intimamente collegato ad una quarta immagine, quella dell’io lirico che nel suo microcosmo soggettivo li contiene tutti e tre.

Nello scorrere del fiume si fondono presente ed eternità, natura e creazione umana. C’è poi l’immagine del pozzo, creazione umana che assurge a simbolo e con cui s’identifica l’ “io” lirico, un pozzo da cui non si trae che oscurità (buio), mentre l’acqua viva manca. È il simbolo dell’inaridimento dei sentimenti, ma con una pallida speranza che qualcun altro, dunque l’Altro, il prossimo, riesca a farne zampillare l’acqua.

Accanto all’elemento acqua strettamente collegato con la fluidità della poesia del Bejko, incontriamo anche il suo gemello antitetico, il fuoco, vitale, catartico, mai distruttore, che assurge a simbolo dei valori tradizionali e della famiglia, del focolare nella poesia “L’ULTIMA CANZONE PER IL FUOCO”. Il fuoco simboleggia il calore umano che nell’atmosfera di solitudine egoistica ed individualistica oggi dominante, rischia di perdersi. Il calore è un motivo ricorrente in questa poesia (Cos’era questo caldo, inestinguibile scoppiettio / che emanava dal suolo nei focolari … questa rapsodia della sera che gli scaldava l’anima?…. altre canzoni rinnovavano la sera calda”).

Il fuoco non è solo qui simbolo di tradizione, ma anche di continuità, di alternarsi di generazioni, di luce che illumina l’avvenire. (… il fuoco che tiene in una mano il crepuscolo/ e l’alba nell’altra).

La drammaticità e la malinconia sono due importanti componenti della poesia del Bejko, ricca di fini analisi psicologiche.

L’ “io” lirico non assume sempre la voce del poeta, a volte si identifica con quello, originalissimo, rievocato dall’autore, di un monaco antico a cui è stato chiesto di formulare i codici delle leggi da parte del sovrano Hammurabi, ma questo personaggio di asceta e di filosofo si sente al di sopra delle tentazioni del mondo e si spaventa del ruolo di giudice dei suoi fratelli che gli è stato assegnato da un sovrano. Forse in questo eroe antico vive un presentimento del vangelo di pietà di Gesù. Esso si contrappone alla crisi moderna dei valori, arbitrarietà delle leggi scritte, crollo delle leggi morali non scritte.

L’eroe lirico che è protagonista della poesia del Bejko, solitamente è umano, ama e soffre con particolare intensità, medita e ricerca la solitudine e contemporaneamente la vive come un tormento, è capace anche di ribellione e di odio.

Inoltre nella poesia del Bejko si sente una presenza, assente nei versi di altri suoi confratelli e contemporanei come, ad esempio, l’originalissimo Frederik Rreshpja, la presenza di Dio, di un Dio che castiga e fa rinascere come oserviamo nella poesia “IL REGNO SOVRANO DEL LEGNO” in ciù l’ “io” lirico appare disumanizzato “insensibile come legno, muto / senza espressione, come un albero d’inverno…/ senza linfa, che come legno può essere / spezzato”  per poi rinascere di nuovo un giorno “sono fioriti il viso, le mani, il corpo umano…sono rinato”.

Questa rinascita avrebbe dovuto forse simbolizzare la morte vivente degli esseri umani nel clima dittatoriale, poi rifioriti attraverso l’anelito mai spento ad una vita libera e feconda, tramite un miracolo di Dio, reso possibile dalla speranza inestinguibile?

Della fauna del mondo poetico del Bejko fanno parte le pecore, simbolo di mitezza ed innocenza che collegano l’ “io” lirico all’infanzia ed al luogo nativo ed alcuni animali che esprimono le metamorfosi interne del poeta, il serpente, simbolo ambivalente di mutevolezza e di saggezza. Rispecchiante la fusione dell’eroe lirico con la natura, con il mondo animale come pure con antiche divinità come le Madri, simbolo della parte più delicata dello spirito del poeta; stranamente anche l’asino che l’ “io” lirico sente dentro di sé, simbolo della debolezza e stupidità umana. (Qui il pathos lirico si muta in pathos comico e satirico).

Vi sono anche i cavalli selvaggi, simbolo di libertà. Il mondo vegetale nella poesia del Bejko è ricco di frutti e di fiori, chiamati con il proprio nome, fra cui la mela con la sua freschezza e dolcezza e la sua carica di sensualità sana, anche se tentatrice come oggetto di paragone, la ciliegia con il suo ricco succo vitale che esprime il sapore dell’ amore e della giovinezza, i fiori di prugno e di mandorlo con la loro impalpabilità, delicatezza e gracilità, la finezza dei loro colori e, paradossalmente, l’ardire di sfidare il gelo, parte integrante di un dato paesaggio albanese e contemporamente simbolo della finezza e delicatezza della poesia del Bejko come pure del suo eroismo silenzioso.

Sono presenti anche vigneti e oliveti, tipici per il paesaggio albanese, collegati però anche con il lavoro attivo del poeta-protagonista che è capace di piantare ulivi come di gettare il seme della poesia, un poeta che non rinnega la sua essenza contadina.

Nel rapporto del poeta con la natura esiste una dialettica di oggettività e soggettività, di attività e di contemplazione che s’intrecciano. La natura per il poeta non è mai una nemica, è, di volta in volta madre e amante come pure un’area da trasformare. È sempre oggetto d’ammirazione e d’amore.

Non è una natura idealizzata, sono rappresentate anche la durezza oggettiva dell’inverno e del caldo, ma virilmente e stoicamente accettate (“È INVERNO, AMICA MIA”, “LA BARBARIE DEL CALDO”).

Nello spettro cromatico dell’universo poetico di quest’autore, creatore di una poesia sui generis, predominano due coppie antitetiche di colori, bianco-nero, e rosso –grigio che esprimono il groviglio di contraddizioni del Bejko.

Nell’opera poetica del Bejko sono presenti anche due importanti component antitetiche, l’amore – nella sua doppia forma di Eros ed agape – e il sentimento della solitudine.

L’amore nella poesia – odierna dell’Autore non ha più la carica – gioiosa e vitalistica-della poesia “C’È IL MARE”, ma una carica maggiormente umana e dolorosa. È l’amore per la compagna della sua vita. Il Bejko, occorre dirlo, è uno dei rari poeti che cantano l’amore coniugale. Esso dipinge con fine pennello il ritratto della moglie in un verso sintetico: “Mia moglie, occhi di latte, occhi di lacrime”. È un amore che si esprime nel culto della bellezza. È un amore che evoca a volte immagini bibliche come Maddalena e la Sulamita a cui dà una vita nuova. È un amore che unisce, che permette di superare il sentimento-drammatico e tragico – di solitudine presente in alcune liriche che ti fanno fremere d’angoscia, di un’angoscia esistenziale.

Queste liriche rispecchiano il dramma dell’uomo moderno in generale, dell’albanese in particolare, che passò da un’implacabile dittatura al caos dell’anarchia, al dramma dell’egoismo individuale dell’uomo moderno, distaccato dalla natura e dalla comunità.

(Non ci sono amanti,/ non ci sono amici/. Noi e davanti a noi/ il nostro cieco

problema/. E ognuno da solo. Selvatici).

Ma la poesia del Bejko – drammatica ed a volte tragica – non sfocia nel nichilismo, in un pessimismo rigorosamente negatore simile a quello del Leopardi. È una poesia ricca di immagini, di metafore, similitudini, epiteti, simboli che s’intersecano fino a fondersi, di una particolare originalità e fantasia (regno sovrano del legno, cielo vetro, fosforo della ossa, occhi di nuvola, vino della notte, viso bagnato di fiori). Vi si incontrano similitudini delicatissime come quella presente nella poesia “IL FIUME “ come un genitore che non vuole che il bambino si desti”. O vi appaiono metafore doppie particolarmente rifulgenti come quella scelta per caratterizzare il fuoco: edificio di rubino.

È una poesia di versi liberi che salgono e scendono con il ritmo del respiro. Il Bejko è di quei poeti albanesi che rifiutano le grandi possibilità che loro darebbe la rima, grazie alle particolarità interne della lingua albanese, ricca di suoni, di asprezza e di dolcezza. Esso confida solo nella musicalità che possono dare alla sua poesia sentimento e pensiero. Il verso libero non è per lui moda, ma scelta. Si potrebbe osservare che vi sono del suoi contemporanei come Ferik Ferra che si sottopone alla rigorosa disciplina del sonetto e lo modernizza e rinnova. Ma una tale disciplina soffocherebbe la poesia fremente e ribelle del Bejko.

SadikBejko è un poeta che fonde oscurità e chiarezza. Ha reciso il legame con il folclore albanese, conservato da non pochi suoi confratelli, anche d’avanguardia, per una poesia elitaria e sintetica, ricca di lampi e di analogie.

È una poesia ermetica la sua?

Indubbiamente. È una “cupa tempesta / di fulgidi soli trapunta” se prendiamo a prestito un’espressione baudelairiana, è ermetica di un ermetismo diverso da quello dell’Arapi, fondatore della poesia ermetica albanese oppure del Rreshpja, è un ermetismo diverso da quello italiano, continuatore della rivoluzione estetica iniziata dal Decadentismo, un ermetismo che nasca in una letteratura eccessivamente spontanea che rifuggiva da programmi estetici com’era quella albanese, generato anch’esso da una dittatura simile e diversa da quella fascista, una dittatura di sinistra, forse più terribile, perché tendeva a schiacciare l’individuo, a spersonalizzarlo nella massa, un ermetismo che tendeva a riaffermare l’ “io” unico e irripetibile. (Il Bejko ha conosciuto anche la spersonalizzazione moderna, la dittatura del consumismo e della tecnologia, la crisi degli ideali ed ha potuto conservare un ideale di solidarietà umana, l’unica ancora per sfuggire al naufragio, essere uomo fra gli uomini, non più il semidio o profeta del romanticismo, ma neppure l’ “uomo senza qualità, figlio del progresso tecnologico).

Questa esperienza storica ed individuale spiega l’intreccio di oscurità e di chiarezza che distingue l’ermetismo del Poeta. È così che la poesia del Bejko ha potuto seguitare la sua evoluzione nella maturità e rinnovarsi come lo dimostrano i volumi degli ultimi anni, “Lettera ad Hammurabi”, “Salmo per il Padre” e “Canti di Salomone” che possiedono una maturità nuova ed un ardore giovanile mai spento.

Infine, possiamo dire alcune parole, riguardo alla traduttrice in italiano, compatriota del Poeta, anch’essa poetessa, che ha selezionato le poesie dell’Autore ed ha avuto cura di dar loro una degna veste italiana, cercando di essere fedele il maggiormente possibile alla poesia originale, ma facendone una traduzione dinamica che la renda comprensibile al lettore italiano.

Il Flora nel “Preludio alla poesia” * osservava giustamente che “la cultura di ciascun uomo, per vie dirette o indirette, anche se egli è più dotto del mitico Salomone, sia fatalmente un insieme di traduzioni” e che “una grande poesia pur perdendo la sua * Francesco Flora, Preludio alla poesia, Nuova Accademia, Editrice Milano, 1959, f. 61, 70. particolare musica, può, sempre acquistarne un’altra”. Il traduttore, dunque, se è all’altezza del suo compito, è un ricreatore, non un copista. Pensiamo che ciò sia avvenuto nella fine traduzione della Pulaj, maggiormente fedele. Sia allo spirito che alla lettera dell’originale, che con la sua sensibilità di poetessa, ha tentato di avvicinare uno dei poeti più originali albanesi all’anima del lettore italiano.

È indispensabile tener conto, analizzando questa traduzione di alcune differenze, fonetiche e morfologiche fra le due lingue: la straordinaria ricchezza di suoni in albanese, la ricchezza di vocali in italiano, la presenza in albanese di date categorie morfologiche come la declinazione e alcuni modi verbali, assenti in italiano. La Pulaj inverte liberamente l’ordine delle parole nei versi, fa delle aggiunte, a volte unisce un verso all’altro, restando però fedele all’accentuazione delle parole-chiave ed al ritmo dell’originale albanese. Intuisce l’importanza di alcune metafore, di alcuni epiteti, per la loro carica emozionale e suggestiva e li rende accuratamente in italiano. Mimoza Pulaj è fedele alla ricchezza di immagini del Bejko ed al ritmo tutto interno della sua poesia che aspira a ricreare nella variante italiana.

La sua traduzione è contemporaneamente libera e fedele, fedele all’essenza della poesia originale.

 

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