La scrittura come terapia: Non dirmi che ho amato il vento
Wafaa El Beih
Descrivendo nel miglior modo il potere terapeutico della parola, Isabelle Allende scrive nella sua autobiografia,Paula: «la mia vita si fa nel narrarla e la mia memoria si fissa con la scrittura; ciò che non riverso in parole sulla carta lo cancella il tempo. Ma il racconto mi aveva preso e non potei più fermarmi, altre voci parlavano attraverso di me, scrivevo in trance, con la sensazione di andar dipanando un gomitolo di lana, e con la stessa urgenza con cui scrivo adesso. Alla fine dell’anno si erano accumulate 500 pagine in una borsa di tela e capii che non era più una lettera; allora annunciai timidamente alla famiglia che avevo scritto un libro. Quel libro mi salvò la vita. La scrittura è una lunga introspezione, è un viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una lenta meditazione». E queste parole ci danno una chiave magica per interpretare l’opera di Liuzzo, la scrittrice che non si presenta nella sua veste autobiografica, ma come una voce che racconta una vita che oscilla tra passato e presente, tra realtà e visione.
In Non dirmi che ho amato il vento, l’atto di scrivere riesce a spezzare il cerchio tragico della vita della protagonista, Mary, la giovane «divisa tra eutanasia e utopia, smarrita nel platonico raggio di uno spazio titanico, nell’occhio strabico di un medaglione», e la figura attoriale. La scrittura salva l’innocenza Mary, le purifica l’animo, le riporta la sua dignità umana, le protegge in un mondo cubo fatto di rapporti ancestrali difficili. Il potere ‘salvifico’ della scrittura che sembra avere la capacità di sospendere il dolore e addomesticare i pensieri feroci viene ogni tanto contrastato dall’ambiente famigliare, ma invano: «La Scrittura di Mary per la madre era diventata il suo incubo peggiore, tanto da augurare la morte a lei e ai propri figli. I cospiratori hanno sotto la pelle il sangue putrefatto, ma non potranno mai spegnere la Luce della fiaccola». Il binomio Scrittura-Luce, coniato dalla voce narrante, ci insegna a vincere il buio e ad attraversare il male.Qui, come nell’opera di Baudelaire “I fiori del male”, c’è il concetto secondo cui, nonostante l’individuo si ritrovi in una società degradata e che non gli appartiene, c’è sempre una bellezza da ricercare, da scoprire e da vivere, e talvolta bisogna appunto passare dal male per comprendere l’importanza e la bellezza della vita. Entro questo quadro, si può capire quale valore ha il passato nella vita di Mary, o meglio quale valore deve avere; il passato serve ad impararle come vivere il presente e il futuro.Riprendo una riflessione di Umberto Galimberti sulla condizione umana così permeata da effetti contrastanti: «Sia Giuda sia Pietro, infatti, hanno tradito Gesù, ma mentre Giuda, suicidandosi, ha assegnato al passato il compito di esprimere tutto il senso della sua vita, Pietro ha conosciuto la fatica di riassumere il proprio passato togliendoli l’onore di dire l’ultima parola sul senso della sua vita. Questo è lo spazio dove si gioca la speranza o il gesto suicida. Sperare, infatti, non significa solo guardare avanti con ottimismo, ma soprattutto guardare indietro per vedere come è possibile configurare quel passato che ci abita, per giocarlo in possibilità a venire. Suicidarsi invece è decidere che il nostro passato contiene il senso ultimo e definitivo della nostra vita, per cui non è più il caso di riassumerlo, ma solo di porvi semplicemente fine». È così per Mary: nella speranza c’è la libertà di conferire al passato la custodia di sensi ulteriori, c’è la scelta di andare avanti lasciando dietro l’odio e la cieca violenza.
E le parole di Mary non si perdono nel vuoto: la moralità e la religiosità della giovane protagonista trovano echi in Raf,il compagno interiore,e Delma, l’amica fedele. Raf, il Daimon di Mary, l’angelo custodeabitante dell’oscurità ma anche della luce: «Raf andò da Mary dicendole:- Quando c’incontrammo eravamo corpi di fresca creta, avevamo verdi rami per braccia, le nostre miriadi di radici erano intrecciate, nate dall’oscuro terreno del sangue e riposte dentro un prisma di astri, finché un rantolo di Luce ci consegnò alla libertà e a un nuovo regno. Fu il nostro Tempio segreto, che tenemmo solo per noi, rimanendo custodi della non-conoscenza».
La funzione terapeutica che svolge la scrittura si fa palese pure tramite la voce narrante onnisciente che tesse la trama muovendosi abilmente tra gli ambienti della tragedia greca e quelli del dramma moderno, tra i ritmi della prosa e quelli poetici. Maria Teresa Liuzzo procede tra dialogo, monologo e flusso di coscienza, trova la sua strada tra Svevo e Joyce; una volta si sente il controllo logico della scrittrice dietro i pensieri e gli stimoli della protagonista, che si sviluppano liberamente e spontaneamente, e una volta meno. Ma siamo certi di una cosa: il flusso di coscienza non è in Liuzzo una semplice tecnica narrativa, a sua volta condizionata, ma è la voce dell’anima, e l’unica via libera di espressione genuina dell’individuo.