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MARIA TERESA LIUZZO, NOVELLA SAFFO DI CALABRIA

 

 

 Antonio Catalfamo

Maria Teresa Liuzzo è da tanti anni presente nel campo delle lettere, come poetessa e come autrice di opere in prosa, come operatrice culturale, impegnata, segnatamente, nella direzione della rivista «Le Muse». E’ nata ed è sempre vissuta in Calabria e questo dato biografico riveste notevole importanza, perché ha fortemente influenzato il suo modo d’essere, la sua grande carica vitale, la sua cultura, che affonda le radici in quelle ultramillenarie della sua terra, e, segnatamente, nella «grecità», che Cesare Pavese, durante il confino a Brancaleone Calabro, ha voluto sottolineare nello scambio epistolare con familiari ed amici e, in particolare, in una lettera alla sorella del 27 dicembre 1935: «La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono “Este u’ confinatu’, lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento».

Una «grecità» che sopravvive non solo nella cortesia dei calabresi e nei colori del paesaggio, ma anche nella dimensione “mitica” che è persistente in questa terra, ben rappresentata, nella sua “ripetitività”, dalle donne di una bellezza selvaggia che portano anfore in equilibrio sulla testa e dal suono della cornamusa, che rimanda, oltre che a Paride, «simile a un dio», alla musicalità poetico-evocativa di Ibico, che nacque proprio nel reggino, che fu amato e tradotto dallo stesso Pavese, e che ebbe fama meritata di poeta erotico. Scrive, ancora, Pavese: «Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medioevali, tutto ricorda i tempi che le ragazze ὑδρευούσαι si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère. E dato che il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile ‒ una colonna spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato ‒ niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verde chiaro di fichindiani e agavi, rosa di oleandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa ‒ il nefando strumento natalizio ‒ ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozi di Paride θεοειδής, quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognava gli amori di Ἑλένης λευκελένου».

Non è un caso che Pavese, in questo clima, abbia ripreso la grammatica e il dizionario per approfondire lo studio dei classici greci e, in particolare, del mito, con le sue proiezioni nel presente.

Questa «grecità» e questa dimensione mitica ed erotica, che pervade la sua Calabria e, nel complesso, la Magna Grecia, si riverbera su tutta l’opera di Maria Teresa Liuzzo e, in particolare, sulla raccolta di versi qui presentata: In veglia d’armi e di parole (A.G.A.R., Reggio Calabria, 2023). Credo che si possa parlare, con riferimento alla Liuzzo, di una novella Saffo. La poetessa di Lesbo è stata studiata sino ad oggi in maniera non sempre adeguata, analizzando la sua esperienza esistenziale, letteraria e pedagogica senza coglierla in tutta la complessità che l’ha caratterizzata. Il tiaso, la comunità da lei guidata, ha avuto obiettivi di natura educativa, letteraria e religiosa. Sarebbe riduttivo considerarlo un semplice luogo di trasgressione e di perversione fine a se stesso. E’ stato espressione di un mondo greco nel quale la dimensione erotica era un momento fondamentale del processo conoscitivo umano ed aveva una funzione accentuatamente pedagogica. Lo stesso rapporto educativo veniva concepito come un rapporto erotico, come dimostra il tipo di relazione che avevano tra di loro i grandi filosofi, il maestro e l’allievo. Platone, nel Simposio, afferma che «solo gli uomini attratti da altri uomini sono i migliori, perché amano ciò che è loro simile, raggiungono la pienezza dell’essere».

Lo «scandalo» suscitato dal tiaso di Saffo è, dunque, uno scandalo postumo, che decontestualizza quell’esperienza profondamente integrata nel mondo greco e nei suoi valori. Saffo è educatrice, amante delle sue allieve, «sacerdotessa» nell’ambito del culto di Afrodite. Vive la sua esperienza con assoluta naturalezza. Non cerca lo «scandalo».

Neanche Maria Teresa Liuzzo cerca lo scandalo, a differenza di tante altre scrittrici che di esso hanno fatto una professione e, per questa via, hanno avuto successo. Per lei, come per Saffo e tanti altri autorevoli rappresentanti della cultura greca classica, l’Eros è il primo stadio di un processo conoscitivo che sfocia poi nella scienza e nella poesia, che sta all’inizio e alla fine dell’esistenza umana. I primi storici e i primi filosofi sono stati poeti e Ugo Foscolo ci ha insegnato nei Sepolcri che quando la civiltà umana finirà, magari a causa di una deflagrazione nucleare (possiamo aggiungere noi, col senno di poi), la funzione eternatrice dei suoi valori spetterà, per l’appunto, alla poesia.

L’Eros non è “urlato” nei versi della Liuzzo, traspare attraverso l’uso sapiente delle metafore, che, però, non diventano mai incomprensibili, come lo sono spesso nella poesia contemporanea. Il rapporto simbolico con la realtà è sempre visibile per il lettore accorto, che si sforza di capire e non si aspetta di essere imboccato dall’autore. La lettura è studio, è sforzo, ma, alla fine, il gioco deve valere la candela, il risultato conoscitivo deve essere all’altezza della fatica affrontata.

Elio Vittorini racconta che, da giovane anarchico, assieme ai suoi compagni libertari siciliani, del tutto “illetterati”, iniziò il suo percorso conoscitivo leggendo La Scienza Nuova di Giambattista Vico. La prima volta non capirono nulla, la seconda cominciarono a capire qualcosa. Alla millesima lettura capirono tutto.

Così il lettore, leggendo e rileggendo le poesie di Maria Tersa Liuzzo, scoprirà che il protagonista dei suoi versi è l’amore, vissuto in tutte le sue sfaccettature. Amore come gioia, ma anche come dolore. E’ stato Guido Cavalcanti, in Donna me prega, a dirci che l’amore non è, come lo concepiva Dante, un processo gioioso, lineare, che porta a Dio, ma è un “destino” doloroso, al quale nessun uomo può sottrarsi. E l’effetto del dolore si vive sia che lo si assecondi sia che lo si contrasti o si cerchi di rimuoverlo.

In Maria Teresa Liuzzo questa componente del dolore amoroso è fortemente presente, sia nei suoi versi che nei suoi romanzi, così come in Cavalcanti e, ancora a ritroso nei secoli, in Saffo, che ha goduto e sofferto per il suo amore ambivalente per gli uomini e per le ragazze della sua comunità, insieme etica, religiosa e trasgressiva.

Evidentemente Maria Teresa Liuzzo ha sofferto molto nella sua vita reale, il suo amore è rimasto inappagato, a causa dell’incomprensione che circonda le anime elette e fortemente sensibili, talvolta addirittura “violentato”, vilipeso. Ma lei ha continuato a seminare amore, instancabilmente, e continuerà a farlo fino all’esalazione dell’ultimo respiro. Amore come esperienza carnale e, nel contempo, “spirituale”. Amore come esperienza culturale, perché la poesia ha una funzione moltiplicativa della realtà, serve ad arricchirla di nuove prospettive, come se fosse una stanza con pareti tappezzate di specchi, che “deformano” la realtà, ma la rendono, nel contempo, prismatica, proponendo un’infinità di prospettive.

Ed è questa visione totale dell’amore, della poesia e della realtà che fa di Maria Teresa Liuzzo una proiezione in avanti, nei secoli, di Saffo, della sua concezione generale della vita e dell’arte, e della sua «grecità», perché, come ci ha insegnato un grande filosofo e filologo studioso del mondo classico, Mario Untersteiner, il mito greco, parlando di dei, semidei ed eroi, in realtà parla dei problemi eterni degli uomini e delle donne, è un modo di ragionare «in universali» (per dirla con Pavese) su di essi e sulla loro esistenza.

Abbiamo già detto della componente dolorosa della visione che Maria Teresa Liuzzo ha dell’amore e della vita in generale e di quanto essa sia legata alla sofferenza effettiva che la poetessa ha dovuto sopportare nel corso della sua travagliata esistenza, a partire dall’infanzia e dagli anni giovanili. Ha scritto Walter Benjmin a proposito dell’Angelus Novus di Paul Klee: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo guardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Benjamin ha voluto così contestare le interpretazioni ottimistiche della storia, vista come infinito progresso, che si realizza meccanicamente ed inesorabilmente, le «magnifiche sorti e progressive» di cui parla il Leopardi. «L’angelo della storia», per l’appunto, cerca di lasciarsi alle spalle le macerie del passato, di arginarle con le sue ali. Ma un vento di tempesta spira dal paradiso, evidentemente in attuazione di un disegno divino, e spinge in avanti le rovine, proiettandole nel presente e nel futuro, in maniera tale che l’umanità non possa archiviarle, togliersele dalla vista e dai pensieri.

Così il passato di sofferenze e dolore rimane presente a Maria Teresa Liuzzo, s’impone in tutta la sua evidenza, è tutt’altro che un semplice ricordo, bensì realtà viva, che brucia ancora le sue carni, ossessiona i suoi pensieri. Ma la poetessa con si arrende a questa presenza. Il titolo della raccolta che qui esaminiamo è, in tal senso, significativo. L’autrice non si arrende al male del mondo, reagisce ad esso con l’«arma» della «parola», vale a dire della poesia, la più potente che esista. Non si sente impotente di fronte ad un presunto «destino», come l’Angelus Novus nella rappresentazione che ne dà Walter Benjamin. Allarga le ali della poesia, contrasta il male, seppur inevitabile, col bene, che diffonde a piene mani tra gli uomini e le donne con i suoi versi e con la sua opera intensa di divulgazione culturale, attraverso la rivista «Le Muse», da lei autorevolmente diretta, e la casa editrice A.G.A.R. di Reggio Calabria, di cui è animatrice.

Ha scritto Pavese in una pagina del suo diario, Il mestiere di vivere, datata 18 ottobre 1942: «L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto». Il termine ubris viene interpretato dallo scrittore piemontese nel senso di «ribellione», «sfrontatezza». Maria Teresa Liuzzo ha sperimentato in prima persona l’esistenza del male nel mondo umano, la componente dolorosa dell’amore, accanto a quella gioiosa. Un’esistenza che è ineliminabile, configurandosi quasi come un «destino», al pari del mito greco. Ma sente dentro di sé un moto di «ribellione» a questo «destino», che trova nelle «parole» della «poesia» l’«arma» più efficace di combattimento. E, allora, l’arte, come nei tragici greci, diventa “corpo a corpo” con la realtà, per contrastare il male e sostenere il bene. Riemerge in tutto ciò la «grecità», la classicità. E qui ci sovviene il pensiero di un grande studioso del mondo classico, Concetto Marchesi, secondo il quale la storia è fondata sull’eterno conflitto dialettico tra bene e male, nella consapevolezza che, anche quando il bene si afferma, la sua vittoria è provvisoria, perché il male è sempre lì in agguato, cova sotto la cenere, sempre pronto a riemergere con la sua forza distruttiva.

Maria  Teresa Liuzzo ha certamente fatto i conti con il suo conterraneo Ibico e, nel contempo, con Saffo. Di questo confronto rimangono tracce indelebili nella sua poesia. Ad entrambi i poeti greci rinviano «la profonda intensità del sentimento» amoroso e «l’appassionata contemplazione della natura», le due caratteristiche fondamentali che Gennaro Perrotta individua sia nell’opera di Ibico che in quella di Saffo, con una differenza: nel poeta reggino troviamo maggiore «opulenza», vale a dire maggiore irruenza. Maria Teresa Liuzzo riesce a coniugare la «semplicità» e la «grazia» della poetessa di Lesbo con la dimensione «tempestosa» dell’amore che domina Ibico, al quale ci rimanda pure la persistenza indomabile della passione amorosa in tutte le età della vita. Scrive Gennaro Perrotta a proposito di un frammento di Ibico: «Il poeta, già vecchio, vede di nuovo, pieno di spavento, avvicinarsi l’amore, e insidiarlo con ogni sorta d’incantesimi e gettarlo nelle sue reti inestricabili; e paragona sé stesso a un corsiero, tante volte vittorioso, che, già presso a vecchiaia, contro voglia scende di nuovo nell’agone. Il paragone diventerà celebre per le imitazioni di Ennio e di Orazio, che lo riferiranno non all’amore, ma alla loro attività poetica. Ma soltanto in Ibico l’immagine è potente; com’è potente l’immagine di Eros che lo guarda languidamente per vincerlo col fascino voluttuoso degli occhi».

Nella poesia di Maria Teresa Liuzzo troviamo la stessa potenza dirompente dell’Eros, che persiste anche nell’età matura, alla quale la poetessa è giunta. Questa potenza è tale che ci fa presupporre che non si spegnerà presto e che continuerà a galoppare, come un «corsiero», nei versi che la poetessa ci donerà nelle prove che verranno.

Il nome Ibico deriva dall’uccello ἶβυξ, simile alla gru. E Maria Teresa Liuzzo continuerà a librarsi nell’aria, come una gru, con i suoi versi potenti e, insieme, leggeri, ancora per lungo tempo.

 

 

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