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MAURO D’CASTELLI: PETER RUSSELL, UN RICORDO

Prof. MAURO D’CASTELLI, POETA, SAGGISTA, TRADUTTORE & CRITICO LETTERARIO

“L’universo è una struttura olistica e organica, praticamente simile a un corpo umano. In tale contesto gli elettroni di un atomo di carbonio del cervello umano sono connessi alle particelle subatomiche che costituiscono ogni salmone che nuota, ogni cuore che batte, ogni stella che brilla in cielo. Ogni cosa interpenetra ogni altra, e sebbene la natura umana possa tentare di categorizzare, incasellare e suddividere i vari fenomeni dell’universo, tutte le ripartizioni in esso sono di necessità artificiali e tutto della natura è una rete infinita”.

(David Bohm)

“There are at least two kinds of games”, afferma James P. Carse all’inizio del suo libro “Finite and Infinite Games: A Vision of Life as Play and Possibility”. “One could be called finite; the other infinite”.

“Finite games are the familiar contests of everyday life; they are played in order to be won, which is when they end. But infinite games are more mysterious. Their object is not winning, but ensuring the continuation of play. The rules may change… There are no spatial or numerical boundaries to an infinite game. No world is marked with the barriers of infinite play, and there is no question of eligibility since anyone who wishes may play an infinite game”.

“Infinite players cannot say when their game began, nor do they care. They do not care for the reason that their game is not bounded by time. Indeed, the only purpose of the game is to prevent it from coming to an end”.

“Finite games can be played within an infinite game, but an infinite game cannot be played within a finite game. Infinite players regard their wins and losses in whatever finite games they play as but moments in continuing play”.

“Il mondo è pieno di disgrazia. Nessuno può negarlo. I nostri corpi sono soggetti a degrado, malattia, dolore e morte. E poi ci sono le miserie del mondo come povertà, disuguaglianza e odio. Ogni singola persona, conosciuta o anonima, ricca o povera, giovane o vecchia, porta in sé il proprio fagottino di miseria, il suo corpo col quale è legato al karma. Una persona sensibile non solo dovrebbe riconoscere l’immensa miseria nel mondo, ma dovrebbe anche indagare sulla sua causa. Secondo la dottrina buddhista, la miseria è causata dal karma, condizionato dal piacere, prodotto da una mente impura.

Questa mente impura è creata dall’illusione del sé, dall’avidya o ignoranza. L’illusione di sé può essere estirpata solo da prajna (la saggezza) o dalla comprensione raggiunta attraverso Samadhi, la mente concentrata. E la mente concentrata può essere raggiunta solo se abbiamo osservato Sila, la morale o il giusto modo di vivere. Pertanto, l’intero insegnamento buddhista è riassunto nel trisiksha, le tre dottrine. Queste sono le dottrine: Sila o il giusto modo di vivere; samadhi o la concentrazione d’animo; e prajna o la saggezza. Da questo si evince che la meditazione diventa indispensabile per chiunque cerchi di ottenere una giusta comprensione della verità, della realizzazione della verità, della concretizzazione dell’altruismo o dell’io così come è. Quindi, dovremmo meditare per sviluppare la nostra mente e raggiungere un’intuizione della natura interiore dell’uomo.

Dobbiamo avere una mente completamente concentrata, che raggiungeremo attraverso una giusta meditazione. Questo ha due aspetti benefici: samatha o la calma d’animo e vipassana o la facoltà di analisi”. (Prof. Samdhong Rinpoche).

E per ultimo riflettiamo pure su questi due versi di Amalia Rosselli, dalla sua “Antologia poetica”: “Cambiare la prosa del mondo, / il suo orologio intatto…”.

***

La vita vera è altrove, ma noi siamo qui.

Emmanuel Lévinas

Le morti dei poeti si richiamano tutte. La recente scomparsa del poeta polacco Adam Zagajewski oppure, a settembre del 2020, di Athanase Vantchev de Thracy mi hanno ricordato il mattino in cui il poeta Leonello Rabatti mi telefonò per darmi la triste notizia della dipartita di Peter Russell. E, nell’esprimere il suo rammarico, usò parole di grande umanità e compassione che ancora ho impresse in me. Similmente, Michael Krüger in un articolo per commemorare Zagajewski, suo fraterno amico, narra della mail e della successiva telefonata di Ryszard Krynicki che lo avvertivano che il grande poeta polacco si era spento pochi minuti prima. Sono notizie che non si vuole scrivere ma dire a voce, alla ricerca di un contatto umano che nella stessa condivisione ci viene in aiuto. Come le antiche romipete, il dolore per una scomparsa, seppur consapevoli della condizionalità e impermanenza della coscienza terrena, riconduce la persona coinvolta al luogo di una intuizione della natura interiore dell’uomo. Nei momenti seguenti alla notizia, la tristezza e lo sconforto ci guidano anche a quella calma d’animo che dà chiarezza alla visione della vita. E nei giorni successivi, si viene – come dire – continuamente nutriti, pur nella miseria del nostro io terreno, dalla permanenza e costanza dell’Apeiron, dell’Illimitato. Al di là di tutte le nostre esperienze buone o cattive, l’infinità della vita si mantiene completa e inalterata. Il ricordo di ciò che un poeta ha significato per noi, è la chiave migliore per aprire questa porta.

Appena percettibilmente, appena…

sorride la natura al suo ospite.

Intanto il bosco è legame

resistente nell’uomo; egli vuole

sapere, contare gli alberi, le sabbie,

le terre rare dell’ombra;

i raggi dei pianeti che a sera

si accendono sopra alle sue cime.

Tu vedi nero in questa dantesca

selva; in lui, nell’uomo, arde il legname

di antiche stagioni, della gemma

che dischiude a primavera, dello

zirlìo che rompe il silenzio degli alberi.

Tu non sei più uomo,

ora che la strada si è fatta cattiva

e l’icona è caduta dal tronco

e gli scaffali con i libri sono

nel torrente portati lontano;

ora che hai preso il bosco per niente

e il suo cielo: onestamente, definitivamente.

Rammento che qualche mese dopo aver conosciuto Peter, egli mi chiese di inviarli, se potevo, una copia del “Trattato del ribelle” di Ernst Jünger, dove appunto si parla del «passaggio al bosco» con tutta la filosofia e il nuovo approccio alla vita che esso sottintende. Ne aveva bisogno per qualcosa su cui stava lavorando alacremente; ma non mi disse cosa. E le mie riflessioni che seguirono, mi indussero a scrivere i versi che ho trascritto sopra: una mia grossolana intuizione di ciò che poteva significare per un uomo questa metamorfosi interiore che lo porta, nella sua ribellione, a una dimensione di vita nuova; che se per Jünger fu la figura dell’anarca, per Russell significò invece – come per i poeti Sufi dell’antichità – una morte interiore o fanà per raggiungere in un rapporto più stretto e vivo con il divino l’immedesimazione della mente umana nella divina durante il flusso creativo della scrittura.

Sempre comunque un dislocamento, una presa di distanza dalla cultura pop imperante nelle attuali dinamiche sociali. Una scelta essenziale per Peter, se consideriamo la sua idea di poesia: “La Poesia per me è, in un certo senso, la rappresentazione del Tutto e di Ogni Cosa, «All & Everything»; così necessariamente è una prossima riflessione della Mente Divina” (dal Prologo a “Voci e cadenze del Terzo Millennio”, 2000). Era certo un’idea che, pur conoscendo l’opera di Jünger, io non avevo mai preso in considerazione direttamente; e sentii invece quanto a fondo e nella sua interezza la stesse abbracciando Peter, nella sua vita condotta a stretto contatto con la natura e il bosco intorno a Pian di Scò e al suo mulino-turbina. Ne rimasi toccato, quasi intimamente punto: mi si riprensentò alla mente l’immagine della formica di velluto – che avevo trovato in qualche libro di insetti – e pensai alla sua dolorosa puntura. Riebbi la sensazione, per una naturale associazione di idee e impressioni, di essere quel bambino che alle scuole medie visitò la Stanza di Eliodoro. Il segno pittorico espresso da Raffaello – ricordo – mi fece pensare, vedendolo così nel suo insieme, a un cespuglio in pieno fiore, per il calore dei colori, la loro forza, e forse per la luce abbondante e tersa di quella mattina romana. Sentivo la spiegazione della mia insegnante, ma tenevo lo sguardo sull’affresco luminoso: su Eliodoro, il ladro sacrilego cacciato dal Tempio.

Non più in piena luce, ma già in quell’ombra marginale che prelude all’estromissione violenta dal campo visivo. Le monete d’oro rovesciate a terra erano come la resina bionda e morbida persa da un albero ferito che avevo visto qualche giorno prima in un boschetto vicino a casa mia. Tutti simboli di un travaglio, di un passaggio: che maturano poco alla volta e poi si esprimono in un avvenimento che, sia pur negativo, era molto importante. Ne ero urtato, sentivo la forza del cavallo e del soldato schierato a difesa del Tempio su di me, come un colpo di vento ben assestato. Come un fenomeno meteorico e improvviso che fa pulizia, riporta la giustizia. La ribellione, cui Russell alludeva chiedendomi il “Trattato del ribelle”, era anche una marza di pensiero, un piccolo ramo tagliato dal suo percorso di vita per effettuare su di me un innesto. E da piccolo e delicato qual era inizialmente, nel percorso, diciamo così, ideazionale susseguente è diventato dentro di me negli anni un albero a tutti gli effetti; mosso spesso da un vento impetuoso e circondato da voli notturni come quelli delle sfingidi verdi che in primavera avvolgono i tigli come riverberi di luce e scintille.

In altre occasioni, Peter, sempre così immedesimato in quella ardente appassionata ricerca soggettiva del vero senso della vita, per la quale l’oggettività distaccata e povera di affettività è solo una forma di decenza priva di verità, parlando della fanà dei Sufi, cioè di quella morte prima della morte o annullamento del proprio ego, mi fece notare l’importanza di mantenere l’anima vuota come un vaso. E dopo una lunga pausa aggiunse: Dio si installerà man mano che avremo sradicato il male. Negli ultimi anni, Russell, fedele sempre alla memoria delle sue scoperte o epifanie, era diventato un poeta molto interessante e direi attraente proprio perché puro e di animo elevato. Una dolcezza e una serietà simili a quelle che hanno le persone che, continuamente raccolte in un’unica opera amata, sembrano vivere di sola vita spirituale; e ogni loro espressione verbale contiene naturalmente un rayon d’amour senza che loro si diano la pena di rivestirlo di parole precise. Una condizione esistenziale che amplia la coscienza sconfinata della vita sino a sentirne il principio divino in ogni minima cosa; come il protagonista del romanzo medievale di Zoé Oldenbourg intitolato “The Corner-Stone”, Haguenier, il quale, nel suo scontento, dopo lunga cavalleresca ricerca della donna amata, scopre in Lei il volto di Dio. Una lettura che mi consigliò lo stesso Peter, e anche uno dei pochi romanzi contemporanei che il poeta aveva letto con piacere e interesse.

Da questi primi contatti con questo straordinario uomo e poeta e letterato, in cui non si faceva sforzo a fidare, molte mie certezze furono stroncate dalla sua parola risuonante e precisa… dalla parvenza di farfalla attaccata a un filo d’erba ma diretta nella sua trasmissione al cuore. Dalle lettere e dai discorsi, dalle sue poesie e dai suoi splendidi saggi sulla letteratura, ebbi presto una prima consapevolezza. La nascita biologica è solo la metà della storia; l’altra faccia della medaglia è il risveglio spirituale e la realizzazione della verità eterna, al di là della nostra consapevolezza personale e transitoria. Su questo punto Peter era molto serio. Il riemergere alla coscienza delle proprie radici, come una sorta di fuoco eracliteo della natura, superata l’età della giovinezza, ci riporta a noi stessi in un modo nuovo, temperato e comprensivo. Peter mi fece comprendere come una conoscenza appropriata e puntuale (di noi e del mondo) è una forma di potere e un grande dono; perché la sapienza terrena è un preludio delle intuizioni celesti. La vita sulla terra di norma segue una parabola della coscienza ascendente, un arco acuto, che unisce al suo vertice fisica e metafisica. Le piccole cose che possiamo osservare e toccare sono sempre connesse alla vastità di ciò che è ignoto e illimitato.

Ero un Enoch assunto in cielo

per la mia bontà di lettore in erba,

per come aprivo con attenzione le pagine,

per la mia anima piena di sete di sapere.

In Peter Russell trovai un punto di riferimento costante e un maestro nel senso più alto e nobile. Se il corpo è radicato nella terra, mentre l’anima all’interno del nostro cuore è celeste, stabilire una connessione armoniosa fra le due parti è opportuno e necessario. Spesso non riusciamo a farlo da soli, poiché non siamo capaci di vedere con chiarezza la nostra condizione.

Perdersi in un giardino, terreno, di quelli di cui l’Italia è ricca può voler dire non trovare più la via di uscita, come nel giardino-labirinto, a meno di non possedere quella sapienza che ci indirizza alla porta della sua origine celeste.

La vicinanza spirituale con Peter era una lezione continua; una esemplificazione ideale del significato del verbo ‘educare’, che in latino ritroviamo sia nella forma di edúcere, cioè ‘tirar fuori ciò che è dentro’, nascosto dentro di noi, sia nella forma intensiva di educāre, vale a dire allevare, nutrire, alimentare. Riassumendo, l’educazione come un liberare tirando via qualcosa, come acqua da una miniera; ma anche capacità di un maestro socratico di nutrire la mente del ragazzo che segue. A tale proposito, mi sovviene una serie di riferimenti intessuti da Peter nel saggio “The Figure of Woman in Islamic and Christian Love Poetry of the Middle Ages”, quando egli parla della educazione sentimentale dei giovani, con riferimento alla antica Grecia e alle agapetes della Spagna del IV sec.; ma anche a quanto egli vide nel 1944 presso i soldati Sikh in Burma. Nella trasmissione del sapere da parte di un uomo a un altro giovane uomo, vi è un distintivo tono femminile, senza che ciò implichi qualcosa di impuro. La vicinanza con Peter, era un cambiare la poesia più intima, per cambiare quella dissennata prosa pubblica che nessuno in fondo ama ma che tutti finiscono per sopportare. Pensavo e ragionavo entro i limiti un po’ angusti dei concetti che allora conoscevo, legati alla poesia e alla filosofia occidentale; gli scritti di Russell, le letture che mi ha consigliato, e quasi imposto, rimodellarono quei limiti conoscitivi.

Il gioco di Peter Russell con la vita e la parola, con quella riflessione o riflesso della Mente Divina che è la poesia, dotato della finezza delle note di un musicista e dei colori di un pittore, è stato certamente – riallacciandoci a James P. Carse – un gioco infinito, con l’Apeiron. Il pensiero gioca un ruolo importante nella nascita della poesia che, per questo, non è mai una registrazione di sensazioni, come può essere il fluire passivo della coscienza. Il poeta russelliano non cede alla passività spirituale precipua della modernità. Seppur – come hanno ammesso i critici e, fra loro, un amico fraterno di Peter, cioè Andrew Frisardi – Russell abbia mostrato al suo pubblico “molteplici identità poetiche”: a partire dal poeta lirico tradizionale, amante dei versi ben limati e delle forme levigate, fino al poeta modernista post-poundiano, vicino alla sperimentazione linguistica. E passando attraverso la figura del poeta comico innamorato del verso al vetriolo, della satira, del sarcasmo, dagli “Rabelaisian appetites”; ma anche attraverso la sofisticata e sensibile figura del poeta elegiaco e visionario, per il quale le poesie sono «spazi sacri»: “Sacred spaces cut out of the chaos of the profane consciuosness”.

Allontanarsi dalla coscienza profana per concentrare la mente e avvicinarsi a comprendere la realtà dell’esistenza è il compito del poeta, proiettato poi sul lettore. Vi troviamo linee di forza: come la ricerca ermetico-filosofica, l’ampio respiro dei soggetti trattati, l’abbraccio olistico con la natura e con la vita; linee per l’appunto che contrastano con il provincialismo culturale, la passività dello spirito e una visione ristretta della realtà.

Secondo A. Frisardi, in “Albae Meditatio”, una delle poesie contemplative più belle fra quelle scritte dal poeta, egli riesce, con una sensibilità poetica da maestro, a fondere perfettamente insieme l’osservazione naturalistica, lo sguardo intuitivo sulla realtà, e la sua grande erudizione. Un’armonia intellettuale di tinte e cromatismi, di pensiero e osservazione che raramente è divenuta parola poetica in una fusione così perfetta ed equilibrata di tutte le sue parti. Come scrive Frisardi, elementi tanto eterogenei «harmonize into a sustained ecstatic hymn». Mentre nell’insieme le opere poetiche di Russell sono piuttosto disomogenee, improvvisate, una sorta di variegato arcipelago.

Un’opera diseguale, poco uniforme: «uneven» la definì Kathleen Raine e, per di più, ramificata, poligrafica, carsica – per cui è utilissimo far affidamento su un inventario bibliografico il più possibile esatto.

Il lettore di queste contemplations non si muove solo fra immagini ma fra mondi: «There is a mirror you cannot see and a rose in it…». (da “Albae Meditatio”, un poema di 137 versi) Ciò crea per se una particolare Stimmung – come Russell amava dire – oppure una ‘affective tonality’ (termine desunto da Henry Corbin) che la tessitura verbale crea in modo naturale. (Si veda l’intervista rilasciata da Russell a Frisardi nel novembre del 2000) Si stabilisce così un contesto che fa parte del tempo e dello spazio e insieme li trascende. Importante, già dai primi versi, far sapere al lettore da dove si scrive, cioè la dimensione spirituale cui si appartiene, la stazione di approdo nel proprio viaggio di ritorno all’origine della realtà. Una tonalità affettiva che – scrive giustamente Frisardi – Russell associa alla figura delle Muse e all’ispirazione. Mentre la maggior parte dei poeti di oggi, pur avendo da dire qualcosa di importante, non possiedono una loro ‘tonalità’.

In Oriente come militare, professore nelle Università americane e in Iran, quando l’Istituto Reale di Filosofia era coordinato da S. Hossein Nasr… poi di nuovo in Italia, non più a Venezia, ma nel piccolo paese toscano di Pian di scò (oggi diventato Castelfranco Piandiscò), Valdarno: gli eventi scandiscono la vita di Peter e sono per lo più eventi che lo costringono a cambi repentini di rotta, portandolo, come Ulisse e Gulliver, in sempre nuovi contesti. Susentieri spesso poco battuti, eccezion fatta per uomini solitari e pionieri; sentieri diretti verso l’ignoto, la scoperta, il nuovo: con qualche divagazione, però, nelle terre ricche del pensiero tradizionale, della spiritualità, soprattutto dopo che Russell si era accostato e aveva tradotto Henry Corbin.

Semplificando, nella figura di Corbin ritroviamo in azione la philosophia perennis e la mistica, in particolare del Sufismo islamico, e inoltre l’idea junghiana di ‘archetipo’. Intorno a questo nucleo si articola gran parte dei saggi scritti nell’ultima parte della sua vita, se non negli ultimi suoi anni, quando ebbi la fortuna di fare la sua conoscenza. Il suo pensiero, tutta la sua disposizione spirituale ingaggiati in questo strano confronto finirono per arricchirsi di un particolare orecchio per l’elusività dello Spirito, per la

Presenza elusiva ovvero l’essere delle cose («the elusive Presence or being of things», si veda A. Frisardi, “Peter Russell’s Albae Meditatio”), mentre Peter assumeva un atteggiamento simile ad un saggio che si accinge a guardare la natura per, in verità, vedere meglio l’uomo interiore. E andare dove si trova il vino migliore, cioè nel proprio cuore.

La vita di Peter non è stata un viaggio con vento a favore. Prima di ritrovarsi su questo alto pontile, simile a una metafora in poesia, da cui guardare la vastità dell’essere, l’apparenza e il vuoto, si è protratta a lungo una lenta maturazione di tanti motivi ideali presenti nel suo cuore. Ed è bevendo a questa fonte di energia, a questa vastità dello sguardo che l’attenzione si appunta e l’occhio si affigge alle cose nella loro immaterialità, leggerezza, essendo l’esistenza – come dicono i poeti Sufi – non altro che luce, evanescenza. Attraversando il ponte (e, parallelamente, attraversando in poesia le distanze di pensiero tra cose diverse sul ponte della metafora) si fa esperienza della luce e la si può descrivere come propria. L’anima si mette a camminare su questa vastità di non-essere, dalla quale deriva il proprio sostentamento ogni forma di immaginazione. Ma di fatto è una esperienza non riferibile tout court a un ego; è l’esperienza estatica di quando noi non siamo e Lui è, di annullamento e immersione nel divino. Un’esperienza, questo te lucis ante, tanto sottile e estrema che può durare anche soltanto un millisecondo, l’intervallo di uno schisma, che in musica separa il do dal si diesis, ma per chi la prova di una vastità assoluta: senza il minimo accento di qualcosa di personale, ma con la fermezza dell’eterno.

Per chi, come Peter, ha volto lo sguardo verso questo luogo, la città chiamata da Suhrawardī il «Nessundove», e ha percorso quel ponte di buona lena, senza fermarsi, perché attratto da tutte le forme colorate e magnifiche che gli scorrono intorno, delle quali egli è affascinato, pur non essendoci più un egli che guarda, si tratta di abbandonarsi al flusso di energia e luce. Costui vive in più il dilemma di fare esperienza della vera libertà, pur non essendo libero, poiché deve seguire – andando avanti cauto, ‘a mezza forza’ come si dice in gergo marinaresco, ma senza poter stornare, essendo la sua direzione determinata – la linea del ponte e inoltrarsi. Il luogo dove egli non è (non è in quanto ego) è di una bellezza senza paragoni, di una bellezza divina. Egli – nella sua maturazione spirituale – ha superato lo spazio scuro delle difficoltà dell’esistenza e, affidandosi di volta in volta alla luce di conoscenza che filtrava nel suo nero ricettacolo, si è spinto sino a qui. La transizione avviene anche grazie alla associazione di idee, ma dopo, quando si è giunti non c’è più concatenazione di pensieri, tutti spazzati via dallo spirito divino. Tuttavia non si sente vuoto bensì pieno di energia e di possibilità o potenzialità. Molte poesie di Peter sembrano dettate da uno sguardo fisso su questa stessa realtà immaginativa.

Un punto nodale e dolente, poiché coinvolge la statica della mente del poeta nella condizione di estasi: ciascuno dei miei lettori lo potrà ben immaginare. Quello che qui ho chiamato estasi o esperienza di illuminazione, nella ‘scuola dell’unificazione’ (madhhab al-ittihād) di Suhrawardī e Mullā Sadrā, cioè nel cuore della metafisica Sufi, è detto ittisāl (congiunzione, unione); ma, per mettere in chiaro questo complesso punto, voglio riportare un passo significativo del biografo e fedele discepolo di Suhrawardī Shahrazūrī, che spiega lucidamente come l’idea di unificazione sia legata alla tradizione Sufi (e quindi – per noi – alla figura di Russell, profondo conoscitore di questa materia, se è vero – come si narra nel suo resoconto degli anni di insegnamento all’Istituto Reale iraniano – che alle sue lezioni, piacevolmente a metà tra poesia e filosofia-teologia, assistevano tanti studenti ma anche tanti Shaykh, cioè maestri di teologia): «Ciò che costoro intendono per unificazione delle anime con le forme intellegibili, o con l’intelletto attivo, è quel tipo di unificazione al quale fanno riferimento coloro che sono distaccati nello spirito (arbāb al-tajrīd) e i maestri Sufi (mashāyikh al-sūfiyyah) quando la loro anima, in momenti di allontanamento dal proprio corpo e di perdita della corporeità, viene a congiungersi con alcune delle luci separate (al-anwār al-mujarradah). L’anima svanisce, si svuota, e così la coscienza che ha di sé, per l’intensità di ciò che le giunge dalle gioie intellettive e dai piaceri spirituali e per l’impeto delle illuminazioni radianti. È vinta dal dominio delle luci intellettive separate, che la portano all’auto-estinzione.

Costoro chiamano questo lo ‘stato di unificazione’». Shahrazūrī poi spiega che le anime che hanno raggiunto questo stadio sono così ubriache nella loro contemplazione delle luci ultrapotenti (al-anwār al-qāhirah) che iniziano ad emettere alcune parole o frasi, come ‘Io sono la Verità!’, ‘Sia io lodata!’ e altre preghiere e lodi supererogatorie per avvicinarsi ancor di più a Dio, fino a che

Dio non diventi l’orecchio con cui lei ascolta, l’occhio con cui lei vede, il piede con cui cammina o la mano con cui tocca. Insomma, l’unificazione è il terreno sul quale avviene l’unione mistica, e Shahrazūrī chiama questa unificazione una ‘metafora’ (majāz), tanto più necessaria (come ponte di congiunzione tra le due dimensioni) quanto in ultimo trascurabile. E a questo proposito, quando Sadrā, senza uscire dal solco tracciato da Ibn Sīnā e Suhrawardī, considera l’unificazione di due oggetti corporei una cosa fisicamente impossibile e applica questa conclusione anche al campo dell’unificazione amorosa, tra amante e amata. Dice che, in questo caso, è corretto parlare di unificazione, perché l’amore, come l’intelligenza, è una qualità dell’anima e non del corpo e la loro unificazione (dell’amante e dell’amata) sarà spirituale e ‘metaforica’, e non corporea. Tuttavia, per tema che si pensi che ciò che è ‘metaforico’ non sia reale, Sadrā si affretta ad aggiungere – ed è una frase, con tutto ciò che implica, di una lungimiranza ineffabile – che «la metafora è un arco verso la realtà» (al-majāz qantarat al-haqīqah). Qantarat in arabo significa ‘centina’, ‘arco’ e anche ‘ponte’: ciò ci riporta al nostro discorso precedente; e haqīqah è sia quella Realtà essenziale che non ammette revoca o abrogazione e rimane uguale dai tempi di Adamo fino alla fine dei tempi, ma pure la Verità implicita in questa Realtà essenziale.

La poesia in veste di linguaggio dello spirito si basa sul superamento di almeno tre situazioni presenti nella filosofia moderna: 1. la lingua è menzogna in quanto invenzione umana sovrapposta alle cose di Dio; 2. la collimazione delle ‘cose’ con le ‘parole’ rimane il fine utopistico del discorso, in quanto il tradimento o la prevaricazione operati dalle cose sono in varia misura peccato di orgoglio attribuibile all’ego; 3. la riscoperta del mondo indagando il rapporto fallimentare delle cose con le parole. Perché ora il poeta ha posto i suoi piedi su un terreno di luce, come uno schermo brillante – si dice in Suhrawardī – dove, con la luce, vengono come ombre a manifestarsi i Nomi divini (che sono le Sue qualità).

***

Si dice che «il cuore sia come una piuma nel deserto – i venti la fanno fluttuare di qua e di là»; eppure la sorgente di questi venti – come fu per Peter Russell – può essere il soffio di Colui che è misericordioso, non li si maledica! Assaporandone l’odore fragrante come una brezza di primavera, si vedrà con chiarezza che il Misericordioso «ogni giorno è in una nuova opera» (“Corano”, 55:29), intenzionato a realizzarla. Le variazioni degli stati interiori grazie ai quali noi percepiamo le realtà – a partire dai sensi sino alla visione intuitiva, e intellettiva, della realtà spirituale – dipende dalle Sue variazioni di intento e di azione. Attraverso una metafora possiamo dire che così come il colore dell’acqua in una tazza è il colore della tazza, allo stesso modo il colore di colui che ama è il colore dell’Amato: uno simile all’altro, entrambi confusi in un solo colore. Da questo senso di confusione ha origine la sensazione di fluttuare in balia del vento, come se ci fosse il vino ma non il bicchiere o il bicchiere ma non il vino. Pienezza e vuoto si alternano.

Peter Russell, in quanto strenuo cercatore della Verità, aveva totale e salda consapevolezza che ad ogni istante l’Amato mostra nello specchio della nostra anima un volto diverso. In ogni momento appare in una forma nuova, poiché, in linea con lo specchio, la forma muta in ogni istante, e lo specchio muta ad ogni respiro in armonia con la diversità e varietà degli stati interiori. In ogni singolo specchio il volto mostra la sua bellezza con novità, in un altro colore: qualche volta assume le sembianze di Eva, altre di Adamo. Questo è il motivo per cui il Misericordioso non mostra mai il Suo Volto due volte con la stessa fattezza, né Egli appare con la stessa forma in due specchi diversi. Come riassume Abū Tālib Makkī: «Egli non si rivela mai due volte con la stessa forma, né rivela sé stesso in un’unica forma a due cose diverse». Come testimoniano molti passi degli scritti di Russell la bellezza di Dio, come il poeta giunse a percepirla e a contemplarla intellettualmente, ma a partire dalle vivide impressioni dei sensi di fronte alla natura, ha centinaia di volti: e ogni granello, ogni sfaccettatura ci mostra una visione nuova.

Nel poeta spirituale la coscienza individuale è sostituita da una generale consapevolezza dello Spirito; questa raggiunta consapevolezza fece credere Russell alla superiorità della conoscenza sulla ricchezza e il benessere materiale: perché la conoscenza ti offre una protezione – secondo un hadith dell’Imam ‘Alī –, mentre sei tu a dover difendere la tua ricchezza. E se questa spendendo diminuisce, la conoscenza invece aumenta esercitandola.

Il nesso fra la vita di Russell e le sue idee si trova nel suo modo di essere poeta: nella qualità della contemplazione, quando la mente e l’anima vanno oltre le percezioni dei sensi e attendono che la realtà invisibile si manifesti.

Questa esperienza interiore è anche la base fondamentale delle altre impressioni estetiche che precorrono la visione intellettuale e la sua gioia tanto intensa. Nelle sue ultime interviste e nelle pagine di “Marginalia” (rivista stampata dallo stesso poeta per comunicare con i suoi lettori) inviate a conoscenti ed amici, tutto ciò confluiva in un senso di intima quietudine, se non di vera beatitudine e di attesa di una soluzione prossima al mistero della vita.

Le sue parole mi tornano in mente nei momenti in cui la riflessione si accende o il filo logico di una argomentazione ha bisogno di una prospettiva maggiore; sotto forma di versi o di intuizioni – di insights – come le tante disseminate nei saggi di Russell. Ecco, per me questo è un modo per entrare pienamente nel tono del discorso di Russell.

Ricordo pure, dopo che gli avevo scritto la prima mia lettera, quando mi arrivò la sua risposta: era una grossa busta postale gialla con sopra indicato il mio nome a caratteri cubitali, in una scrittura leggermente tremante ma nitida. E fu sùbito chiaro quanto il poeta ci tenesse a mettersi in relazione con altri appassionati di poesia e di letteratura, e quanto fosse attento anche a trasmettere la sua esperienza interiore di artista e di lettore, oltre poi che di studioso. Lo ricordo poiché ero in un periodo di relativa tranquillità dopo gli studi universitari e dopo aver iniziato l’insegnamento in una scuola privata.

Quel mattino stavo ascoltando la “Quinta” di Beethoven e di fronte a quell’abisso oscuro e magmatico, a quella porta degli inferi che si spalanca nella transizione fra il terzo movimento e il finale, dove si sperimenta come l’attrazione minacciosa di un gorgo buio e indistinto in cui si sta per precipitare, mentre i sensi si ritraggono senza accogliere la luce redentiva che esplode al colmo della tensione musicale; ebbene di fronte a questo abisso leggere le parole gentili e propositive di Peter mi fece capire che si era avviata una certa misteriosa comunione. Un sentimento di gioioso spavento innanzi all’ignoto musicale di Beethoven mi annunciava l’ignoto della conoscenza nel quale stavo entrando grazie alla maestria di Russell. Ma rimanendo alla musica, forse Peter, ad un certo sguardo, era in certa misura più simile a Mozart, alla sua piena accettazione della realtà in tutto il suo male e il suo bene, come l’opera di Ariosto una forma di immanenza non più vicariata dalla trascendenza. Ma era solo la mia prima impressione, perché, dopo, capii come la mente del poeta, preda anch’essa come ogni persona viva, del dualismo inerente alla condizione della vita, debba cercare un fruttuoso equilibrio tra male e bene, se tutto il gioco della vita si determina sul piano dell’immanenza; ma, nella sua incessante ricerca poetica, il poeta non può adattarsi a questo stadio intermedio, non può non scegliere il bene senza grandi compromessi, il Sommo Bene platonico.

Dunque, la primissima forma di conoscenza della poesia di Russell fu per me lampo di intuizione all’insegna della musica di Beethoven: ma un bel tessuto, nevvero, si riconosce subito nel paragone con uno di pessima fattura, e così fu, ad un primo sguardo, per la qualità e bontà dell’opera russelliana. In questo primo avvicinamento, fu acuto il salto culturale: pur coltivando io da tempo, e oltre gli studi universitari in filologia e antropologia culturale, un approccio cosmopolita al fatto culturale, nel panorama odierno e del passato anche remoto, là dove per un contemporaneo il salto temporale è più acuto, il mio gusto poetico – diciamo – era ancora piuttosto grezzo e limitato, rimandava sempre a un certo contesto di impostazione illuministica, lontano da quanto stavo inconsciamente cercando. Grazie a ciò che chiamerò il destino, in un semplice movimento di fili impercettibili, che operano perché queste interconnessioni avvengano, affiorando dal nulla, per una coincidenza temporale fra persone cui devo rendere grazie a qualcuno che sovrasta il divenire quotidiano di fatti e cose, nel gusto letterario e nell’opera di Russell trovai rispecchiato e pienamente maturo e sviluppato ciò che finora avevo percepito solo ‘in aenigmate’. Una theoria nel senso greco del termine, esposta con chiarezza, ben circostanziata culturalmente e convincente nella sua precisione.

Ma l’essenza dell’arte – secondo Gottfried Benn – è riserbo infinito e ogni poeta, ogni opera dopo un’iniziale folgorazione ha necessità di essere conosciuta a fondo, di un lungo tempo di familiarizzazione. Una sorta di nuovo battesimo: alle e nelle sue parole si rinasce. Russell è un poeta che immagina con il cuore e con la mente, nell’esplosione di energia dell’intuizione intellettuale, dell’anastasia che si avvicina al mistero per il tramite di una singolare maniera di percepire la vita. Il poeta sarà anche – oggi – figura irrisoria; ma resta «pietra scartata» di immenso valore per chi sa collocarla nel punto ideale del proprio castello interiore. Scarto colmo di volontà magica, intriso di angolarità nell’arco sospeso di una coscienza devota a conoscere la Realtà oltre i veli illusori.

Fu come quando in un successivo viaggio a Roma, entrato nella Cappella Sistina, ho guardato la volta e il “Giudizio Universale” con il dramma delle anime che salgono e scendono, affrescate come in un vortice, – in un sentimento estatico, d’amore. Esiste una prospettiva dell’arte e dell’artista che non si ferma all’appagamento di sé; ma si incanta a vedere quella bellezza che è rivelazione. Per cui l’immagine che Michelangelo raffigura, come nella iconografia ortodossa, va oltre il puro e semplice impatto estetico: è immagine dell’invisibile. Modo e occasione di svelare il mistero, che senza veli non potrebbe esistere nel mondo visibile. L’arte di Michelangelo, la bellezza degli affreschi della Cappella Sistina sono una scorciatoia tra l’essere umano e Dio.

La stessa prospettiva riunificante con Dio che appartenne alla Du‘a, alla invocazione di Muhammad ibn Nasir (1603-1674), appartiene oggi alla pagina di poesia di Russell, si pensi ad “Albae Meditatio”, una delle sue opere più perfette. Bella spiritualmente, come una icona, e naturale nella tonalità come certe immagini acheropìte, che scaturiscono da sé nel legno, nei minerali, nelle tracce fossili. Lo scarto che diventa chiave di volta se inquadrato da uno sguardo attento.

Il Peter Russell, già anziano, che io incontrai qualche anno prima della sua scomparsa, era un Orfeo, un Eracle indagatore dell’interiorità dell’uomo; un padre, più semplicemente, che mi accompagna ancora oggi come Virgilio ha accompagnato Dante nell’impegnativo viaggio verso la «nobile porta» che si apre sull’Aldilà. Nella Du‘a si dice: «Noi non abbiamo altra mira che la Tua nobile porta», e poco dopo: «concedici una gnosi completa». La poesia di Peter si fonda sempre su una intuizione, intellettuale e sentimentale, gnostica: aggettivi da leggersi in un senso un po’ diverso dal loro significato italiano comune. In Peter l’intuizione è intellezione. Egli conosceva, sin da quando – come mi raccontò in una lettera – a Parigi era diventato studente e discepolo di Henry Corbin, la poesia Sufi, in particolare i suoi maggiori rappresentanti. Ma anche l’egiziano Ibn al-Fārid e il suo “Diwan”, e sapeva pure quanto in una poesia sia importante la ‘tonalità affettiva’. Una poesia senza sentimento è vuota; il sentimento senza poesia è muto. Per questo Russell, scholar e poeta, ammira la “Commedia” dantesca, perché è un’espressione poeticacompleta, racchiude in sé ogni aspetto dell’umano: dalla perdizione e degenerazione nell’Inferno, allo sforzo del pentimento nel Purgatorio, alla perfetta beatitudine nel Paradiso. L’uomo è intelligenza e libertà, e il suo fine ultimo è di indirizzare rettamente le proprie azioni e i propri pensieri per riconoscere il Bene come essenza della Realtà. Non il bene relativo dunque, ma il Sommo Bene.

«Forse sono ciò che si chiama un “sempliciotto”, credo al cuore umano, che [esso] sarebbe una debole ombra dell’Intelletto e dell’Amore Divino che l’artista rappresenta – per quanto remotamente – passivamente tramite l’Intuizione e attivamente tramite l’Immaginazione, la quale il Coleridge ha chiamato ‘Immaginazione primaria’ per distinguerla dalla “fancy”, cioè la ‘fantasia’, e cinquecento anni prima, Dante Alighieri l’ha definita l’Alta Fantasia». (da: “Voci e cadenze del Terzo Millennio”, Prologo) Tramite questa Alta Fantasia o Immaginazione coleridgiana, Russell considerò sempre la poesia come «prossima riflessione della Mente Divina» e studio, cioè «applicazione dell’animo innamorato de la cosa, a quella cosa» (Dante, “Convivio”); e, come Swedenborg ha scritto quattro secoli dopo l’era del Dolce Stil Novo: «Amore», che è totale ubbidienza all’Amata che è Immagine del Divino, cioè, «del Tutto e dell’Uno, l’Unità oltre l’Essere». L’Amore congiunge in questo principio la mente e il cuore del poeta «con il disegno della creatività divina nell’Universo». Per questo la poesia è ciò che «rivela il Buono e il Bello, come dice Dante in Paradiso XX, 29, “in forma di parole”».

La parola prende forma poetica, quindi spirituale, quando è garantita una corretta percezione della realtà, che le permette di vedere nella frammentazione del divenire un’Immagine del Divino. Come scrive Russell, «la mente umana percepisce ed interpreta le cose, anche le cose identiche, su molti differenti registri, in diverso modo. Noi dobbiamo distinguere tra immagini che sono immagini di una impressione sensoriale a diversi gradi di rimozione e immagini che sono riflesse dal noûs o immaginazione spirituale, atman. In entrambi i casi abbiamo bisogno della luce, non del buio dell’esistenzialismo nichilistico». Per rendere più concrete queste parole di Russell pensiamo a come nel “Paradiso” dantesco, in un crescendo di verticalità abbacinante, la stessa memoria terrena e corporea vada estinguendosi a favore di trasparenze vitree e madreperlacee e l’occhio veda per sottrazione di colore, vivendo le cose che percepisce in sfumature infinitesime. Attraverso le parole di Dante, il lettore viene a scorgere la nebbia traslucente che avvolge le distese di spazio fra le stelle, entra in sintonia con la vertigine visionaria che traspare dal cammino poetico dell’autore. E come Dante anche Russell ha intrapreso un viaggio con consapevolezza di pluralità, la sua intuizione e visione è la nostra. It is “something within us that is divine… the highest thing in us, for though it be small in bulk, in power and value it far surpasses all the rest”. (Aristotle, Nicomachean Ethics, X.7.8)

A conclusione, riporto le parole di Russell in calce a molte sue lettere – quelle che lui amava porre a fianco della propria firma: «With every good wish, Peter».

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