Sandro Angelucci: RECUPERARE DAL FANGO
Sandro Angelucci, Poeta – Critico letterario – Saggista
Maria Teresa Liuzzo. Non ditemi che ho amato il vento. A.G.A.R. ED.REGGIO CALABRIA. 2021. Pp.208
Per iniziare a scrivere su Non dirmi che ho amato il vento, il romanzo che segue e prosegue E adesso parlo di Maria Teresa Liuzzo, mi rifaccio al periodo conclusivo de Ho scelto il buio (decimo capitolo dell’opera): “Mary aveva scelto il buio, perché soltanto attraversandolo, poteva tessere arazzi di Luce e recuperare dal fango l’Anima rossa dei garofani”.
E, per rendere tangibile l’idea della continuazione – ché di prosecuzione si tratta – riporterò un passo, tratto dal libro d’esordio, che ben chiarisce la figura del personaggio principale e il carattere autobiografico di entrambe le opere.
“Mary (la protagonista) era la maggiore di tante sorelle e fratelli, e subito, a cinque anni, fu costretta a trasformarsi in donnetta di casa… Sentiva urla, riceveva minacce e maltrattamenti […] Mary era la figlia della colpa, e per questo andava punita, soprattutto quando accorreva in aiuto della madre per strapparla alla collera del padre che, anche quando la moglie era in avanzato stato di gravidanza, la pestava e le faceva vomitare sangue. Ma era solo l’inizio di un incubo senza fine che la faceva sentire un involucro senz’anima, figlia di nessuno”.
“Era solo l’inizio”, già: i primi passi della vita drammatica di una bambina prima, e di una donna poi. Si resta sbigottiti – com’ebbi a scrivere – di fronte a tanta efferatezza e alla resistenza straordinaria di Mary; attoniti e smarriti dalla malvagità di certe persone quanto strabiliati dalla prova di sopportazione e solidità della protagonista.
In effetti, anche questo testo descrive qualcosa cui si stenta a credere. Eppure è tutto vero, tutto dannatamente testimone delle più nauseabonde bassezze di cui l’essere umano può rendersi responsabile.
Si legge, nel secondo ‘capitolo’ della tragica storia: “L’entourage familiare si comportò con Mary, nel corso degli anni, come la peggiore delle epidemie. Lei, maltrattata, sequestrata, spinta due volte al suicidio, ebbe la forza, nonostante l’isolamento obbligato – fisico e psichico – di sopravvivere a un silenzio di cancrena.”.
La Scrittrice descrive i suoi parenti (non escludendo, tuttavia, d’includere, tra gli affetti, anche quello di un’“amica speciale”) con particolare riguardo alla madre.
La figura della genitrice viene tratteggiata, fin dall’esordio, con acredine, ma anche con immenso rimpianto per non aver mai potuto conoscere cosa significhi crescere sotto la protezione di un amore insostituibile qual è, appunto, quello materno.
Sarà bene leggere qualche stralcio anche da Lettera a mia madre, con la quale la Liuzzo apre il romanzo entrando subito in medias res:
“Cara Mamma, non mi sarei mai aspettata che, proprio tu, avresti potuto distruggere i miei sogni di bambina […] Tu, il mio Dèmone, la mia carceriera. Tu che buttavi via la minestra se non assecondavo i tuoi, e i suoi, luridi desideri-ordini, e che permettevi a tuo marito – e, disgraziatamente, mio padre – di flagellarmi e, per punizione, di mandarmi a comprare la carne per i suoi cani da caccia, che finivano impallinati quando non riportavano la preda. […] Io che da sempre sognavo una carezza materna, che potesse portarmi un soffio di tenerezza […] Avrei avuto, certo, un alito di affetto se fossi stata generata da un mostro. Il paradosso di questa singolare circostanza è sopravvivere con l’eterna colpa di essere nata, rifiutata ancora in embrione. Nata e maledetta da una donna bigotta […] E vai in chiesa ad elargire carità con denaro rubato a tua figlia (una figlia che ti ha fatto da madre), con la complicità e il benestare degli altri tuoi figli-marionette dei quali fai uso e abuso […]”.
Mi sono, forse, eccessivamente dilungato nel citare, ma non me ne pento, in quanto da queste parole si evince la brutale disumanità che trasuda da una narrazione sofferta, dal bisogno della Nostra di non tacere più per rispetto di se stessa e della propria autenticità.
E una volta iniziato, il sacco viene svuotato completamente: ci sono interi capitoli del libro riservati sia agli altri componenti il nucleo familiare sia a persone che, con la loro negatività, hanno profondamente nociuto all’integrità fisica e morale della scrivente.
Personaggi come Mercedes (la sorella minore), inviata a casa sua con la scusa di farle visita, ma in realtà con ben altri intenti, che nulla avevano a che fare con l’affetto, da un’altra delle sorelle, definita nel testo l’Indemoniata, per la falsità e l’ipocrisia dalla stessa dimostratele. Ma anche altri, come le Megere: due donne perfide “che ostentavano professionalità all’apparenza impeccabile”.
In mezzo a tanto squallore, non poteva mancare tuttavia un lungo respiro d’amore, quel respiro che – come nel volume precedente – viene concesso alla Nostra dall’amatoRaf. Una figura enigmatica, quasi evanescente, verrebbe da dire, per la sua natura più spirituale che terrena. Sono molti i passi in cui la Scrittrice si sofferma a rappresentarne i modi delicati, e sono pagine di profonda presa emotiva, d’intensi sentimenti e – perché no – d’eterea consistenza.
“Tacendo (Mary) h(a) crocifisso la (sua) pace” ma, ora, non è più tempo di stare zitti; adesso “Mary non voleva che i suoi ricordi finissero nel precipizio: li raccolse a uno a uno, come fa un usignolo quando raccoglie le sue ferite e le culla nel mare dell’erba, affinché non si smarriscano nel deserto della dimenticanza”.
È, forse – ma credo di poter dire senza dubbio – l’immagine più penetrante che il romanzo ci riserva, pur non mancando, nel testo, esempi di altissima prosa poetica che danno l’idea di una scrittura ispiratissima, realizzata con la padronanza di mezzi tecnici e narrativi di assoluta rilevanza.
Tornando all’ultima citazione, l’accostamento del fare della protagonista a quello dell’uccellino dal canto melodioso è quanto mai inerente al senso ultimo del romanzo, alla sua stessa significazione: la Liuzzo non vuole dimenticare ma neppure vuole smettere di cantare ché questo significherebbe morire per lei.
“Mary aveva scelto il buio, perché soltanto attraversandolo, poteva tessere arazzi di Luce e recuperare dal fango l’Anima rossa dei garofani”.