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IL MESSAGGIO NELLA POESIA DI MARIA TERESA LIUZZO “PSICHE”

IL MESSAGGIO ALTAMENTE SOCIALE E UMANO NELLA POESIA DI MARIA TERESA LIUZZO “PSICHE”

 

 

di DON GIUSEPPE PENSABENE (Cultore della lingua latina, nel solco della tradizione di quel clero reggino dotto – poeta – scrittore – saggista – letterato – educatore e cultore di discipline umanistiche e scientifiche)

 

 

Questa nuova silloge della poetessa mantiene intatta la freschezza delle passate produzioni. Il titolo stesso ne è una conferma. La sorgente della sua ispirazione è interiore. Questo rilievo può sembrare pleonistico: c’è arte che non attinga al proprio intimo? Sì ma ci vuole anche una certa posizione. La realtà esterna di per sé così invadente è semplicemente materia grezza, in genere povertà ma è la ricchezza interiore che la vivifica. La maggior parte della gente sa dialogare solo col mondo esterno. Non ha niente dentro. I mistici e gli artisti invece hanno un loro dialogo interiore. E’ il filtro interiore che ci fa comprendere la complessità della realtà. Il lirismo è come l’albero che pur vivendo di un riflusso continuo d’aria e di solarità è soprattutto dal sottoterra chiuso e buio che trae le energie necessarie per il suo sviluppo. Ma anche qui c’è modo e maniera. Ci può essere il solipsismo che a lungo andare si traduce in una ulteriore contrazione e c’è chi come la nostra poetessa si apre sempre su nuovi orizzonti. L’inconsueto la affascina. ”Volò la colomba / sulla terra del fuoco / sostando negli abissi di pietre levigate / nel patibolo dell’inconsueto” (Tralci del passato). L’inconsueto è anche il passato. Anche in questa dimensione che secondo più appartiene al non essere, la poetessa trova i colori e i profumi della primavera.

”Superbe / nella delizia / d’un raggio / appaiono oltre la siepe / le tenere rose di maggio”. Il lettore potrà notare man mano che procede nella lettura che i ritmi vengono scanditi quasi su poche note ma questo più che portare ad una monotonia del dettato vuole semplicemente dare più spessore a questo mondo interiore dove il segno non può essere percepito se non attraverso un richiamo ribadito. Quale stupore per chi entra in quest’ottica! Con la poetessa può ripetere: ”Solleverò il capo / prima che il giorno declini / e grappoli seguirò di stelle / aquiloni che spaziano / solitudine umana d’eterno! ”.

Ma questo canto non si effonde su una platea vuota, su fantasmi creati solo in nome di una libertà artistica ma è teso e ancorato anche nella realtà, anzi all’attualità, al dramma continuo e ininterrotto di cui è composta, pur nelle rare pause, la vita dell’uomo. La visuale della nostra poetessa, pur quando usa lo staffile, tutto ingentilisce, tutto accarezza. Basta una sorgiva per animare una zona arida e brulla.

E’ come se la posizione di partenza e d’arrivo venissero capovolte. E l’esteriore che è buio, l’interno che è chiarità. ”Una leggera pressione sul telecomando / è rock / è quiz / informazione / tra le sparse borgate / di rustica quiete” (Mondi opposti).

Nulla sfugge al suo occhio attento che accanto allo stupore che l’attira avverte anche l’orrore che la fa ritrarre. ”Acque terse / pianure di zaffiri… / Rami agonizzanti nel gelo / parassita / della montagna succube… ” (Stupori e orrori). Non è la sua una partecipazione generica ma piena condivisione. Lo dimostra lo scenario che si presenta al suo sguardo nelle più varie direzioni. Aspromonte, Realtà Europea, Negri, Terzo Mondo, Area balcana, Lutto a Palermo, perfino Tangentopoli.

D’accordo, come diceva Montale, la poesia rimane sempre un gioco, senza finalità precostituite. Ma se la realtà innegabilmente è bipolare, fatta di bellezza e di bruttura, di luce e di buio, di armonia e dissonanza la poesia, sempre in cammino verso un mondo ideale, non può non cogliere il bello anche nel putridume. Come in un certo senso faceva l’antico Virgilio che per trovare le gemme frugava in de stercore Ennii.

Il lirismo, comunque lo si voglia definire, sarà sempre l’infinita ombra del vero (Pascoli, Alexandros).

”Questo grido / per il mio riposo / dove l’incubo / anche il sonno governa / dove io schiava ubbidivo / al reo padrone del giorno. / Tregua / dia armonia al mio sogno / sia fine al mio tormento / anche se in quest’ultimo inganno / si celasse la morte”.

E’ una poesia questa che fa rivivere pur nel suo piccolo il mito di Mida che faceva diventare oro tutto quello che toccava: ”Ricaverò tozzi / per rifarne pane / granelli / che diademi diverranno / al pio Rosario”.

Per concludere c’è da precisare che la poetessa pur rifuggendo dagli sperimentalismi e cerebralismi oggi di moda non ci offre però subito la mensa imbandita. Questa poesia non è pasto per i superficiali o per chi non sa trovare momenti di raccoglimento. La metafora, cioè l’allusione, la suspense, la distrazione calcolata esige oltre all’approfondimento anche un certo mestiere per penetrare a fondo. E ogni mestiere si impara con la pratica. Al lettore quindi l’invito a tenere questo testo tra le mani e consultarlo anche come un diario di vita che riscaldi col suo afflato la dura realtà del vivere quotidiano.

 

 

 

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