Albspirit

Media/News/Publishing

Non dirmi che ho amato il vento! – Maria Teresa

 

Liuzzo ancora alla spasmodica ricerca del proprio Godot perché la vita abbia un senso.

di Giulia Calfapietro

Ho vissuto il primo libro della trilogia autobiografica di Maria Teresa Liuzzo ‘E adesso parlo!’ dal di dentro, avendone curato la traduzione in lingua inglese. Più leggevo le vicende della piccolo Mary e più mi sembrava di conoscerla da sempre. Mi sono sentita una privilegiata per aver avuto la possibilità di entrare nei suoi pensieri e nei suoi stati d’animo e nella scelta di ogni parola o espressione che ritenevo più adatta alla resa in un’altra lingua.

La sofferenza, l’incredulità, i sogni spezzati, i bruschi risvegli dinanzi ad una realtà cattiva e ostile della giovane protagonista si mescolavano alla mia malinconica meraviglia di come l’autrice fosse riuscita ad essere così vera cogliendo, ad ogni attimo, l’essenza di quel vivere e di quel male interiore che faticava a trovare risposte chiare ed accettabili agli occhi del lettore.

Insomma, io “Mary del primo libro” me la sono portata accanto per alcuni mesi: sedeva vicino a me alla scrivania, si poggiava sul bracciolo della mia poltrona, mi augurava la buona notte prima di andare a letto. Ho amato E adesso parlo! e questo non ha di sicuro favorito l’approccio iniziale a Non dirmi che ho amato il vento!, il secondo volume di questo certosino lavoro editoriale.

Riuscirà, mi chiedevo, l’autrice a rimanere all’altezza della prima parte della storia? Sarà possibile provare per me le emozioni forti che ho già conosciuto durante la precedente lettura e struggermi ancora nel dolore e nella sofferenza della protagonista? L’intuizione letteraria, l’arte di cesello nel plasmare la lingua e metterla al servizio delle sensazioni, degli stati d’animo, la profondità emozionale, il difficile equilibrio fra soggettività estrema e oggettività narrativa saranno rimasti intatti?

Ho immediatamente compreso che Non dirmi che ho amato il vento! non poteva e non doveva essere letto come il semplice sequel del romanzo precedente e che bisognava immergervisi senza la presunzione di paragoni e confronti per godere appieno della sua essenza. Certo vi avrei incontrato figure e situazioni che già conoscevo ma che, nel frattempo, si erano trasfigurate nell’arte della Liuzzo, anche lei, a sua volta, sempre più intrisa delle loro caratteristiche, ancora alla ricerca di quanto di ulteriore era necessario raccontare a se stessa e ai suoi lettori.

Non dirmi che ho amato il vento! No regala la stessa impalcatura narrativa del romanzo precedente. E’ meno sequenziale, meno coordinato nei ricordi e nelle visioni, una sorta di puzzle nel quale le tessere restano a tratti sospese, nella ricerca spasmodica della loro giusta collocazione, fino a scoprire che per alcune di esse vi è più di un posto nel ricomporsi del quadro generale della storia. Ombre che restato tali, appena visibili negli angoli remoti del narrare e che poi, d’un tratto, vengono alla ribalta e sulla scena assumono le sembianze di demoni o di angeli custodi. Al centro Mary, solo in poche pagine del romanzo ancora bambina incredula e sofferente dinanzi alla malvagità della famiglia, poi adulta, consapevole, aggrappata alla vita, alla sua passione e a quelle sporadiche persone in grado di regalarle attimi di serenità e di affettuosa complicità.

Ma, nel libro, accanto a Mary bambina e Mary divenuta adulta, vi è una terza Mary che, fuori da ogni dimensione temporale, osserva il narrato con una oggettività agghiacciante. Scandaglia il passato, passa al setaccio il presente, inghiotte il vissuto e l’immaginato e rielabora l’esistenza in un merletto di grande fattura che dona al lettore, come fosse dinanzi alla vetrina di un negozio di lusso, luccichii e giochi di luci ed ombre a racchiudere emozioni così profonde che soltanto la penna di Maria Teresa riesce a raccontare.

E’ una esperienza sensoriale multipla per colui che legge il romanzo. Non solo luce e ombra, ma suoni incantatori e grida disperate, che diventano un’unica melodia silenziosa, udibile solo nel profondo delle coscienze. Il ritmo, con il quale le espressioni e le singole parole si susseguono, non rimane mai lo stesso nella narrazione. Il verso, sempre intriso di allusion poetiche, cambia al cambiare dello stato d’animo vissuto dalla protagonista. La cadenza, piuttosto rallentata nella prima parte del libro, diviene più marcata, più veloce, incessante fino agli ultimi capitoli dello scritto fino ad assumere la forma di una serie infinita di flash linguistici, di pensieri spezzati, di emozioni che faticano a sgorgare libere fra le pagine del romanzo, di colpi sordi che frantumano il cuore e generano un pianto liberatorio.

Non dirmi che ho amato il vento! si apre con una lettera alla madre della protagonista. Il capitolo è breve, lapidario, ma contiene al suo interno l’essenza dell’intero lavoro. L’introduzione alla lettera si apre con una espressione terribile: Il mio diario è di sangue, che rimanda immediatamente il lettore al colore rosso e a molto di ciò che esso rappresenta. E’ il rosso del sangue che viene fuori dalle ferite del corpo e dell’anima di Mary “maledettamente costretta ad uccidersi mille volte, fra lacrime e coltelli di silenzio, che gli innocenti traducono in colpa di vivere”, intrappolata in un’esistenza di filo spinato che le impedisce di essere se stessa e di svestire i panni dell’estranea e della nemica quale Mary appare agli occhi della sua famiglia, soffocata dalla malvagità e dall’indifferenza affettiva che la circondano e che trasformano in macigni pesanti i momenti di una esistenza sterile, cruda, finanche ombra di se stessa.

Ma il rosso ci condurrà, nel corso del romanzo, a pensare alla grande passione di Mary per la scrittura, per la poesia, per il potente sollievo che la parola riesce a donarle e la trasfigurerà dinanzi agli occhi preoccupati e increduli dei lettori nell’artista di successo che, attraverso la sua immensa opera letteraria, ha aiutato ed aiuta coloro che, al contrario, non posseggono il dono e l’arte della scrittura, a comprendere che certi stati d’animo possono trovare una espressione preziosamente precisa e artisticamente unica a far loro da abito. Mary intinge nell’inchiostro ogni suo fremito, speranza sopita, disperazione amara, paura ancestrale, visione del futuro e ne crea forme grafiche geniali che sfiorano l’immortalità.

E, infine, il rosso si impone quale tinta della passione amorosa che lega indissolubilmente Mary al suo Raf: un sentimento puro e insieme dannato che costringe i due ad una simbiosi di anime capace di superare i limiti del tempo e dello spazio, nella quale ogni distanza scompare dietro lo scintillio sfavillante di una unione che si nutre di protezione, complicità, ammirazione e passione carnale. I capitoli centrali del romanzo sembrano poter essere letti come un unico interminabile amplesso fra Mary e Raf, un amplesso che impone ad entrambi un accumunarsi sempre più profondo di visioni al di là del vivere, nel ricordo pressante di momenti d’amore passati e di voli disperati ad immaginare un futuro che essi sanno impossibile a realizzarsi perché troppo forte la malvagità intorno, troppo pesante l’oscurità che incombe sulle loro bellissime anime che resteranno affette dalle sofferenze e dalla malattia da essa generate. “Mai potrai amarmi: sono forma liquida. Mai potrai trattenermi, ma neppure potrai fare a meno di dissetarti alla sorgente dell’attimo, di bermi come acqua di ruscello e portarmi nel tessuto delle tue vene”.

Tornando al primo capitolo del libro, quello della lettera alla madre, Mary dedica alla genitrice pensieri feroci appellandola quale “il cancro che sopravvive, il sudiciume degli inferi che hai trasmesso ai tuoi figli . Nel marcio rapporto con colei che le ha dato la vita, che già in queste pagine riaffiora in tutta la sua asprezza, vi è racchiuso il livore dell’intera famiglia nei confronti della protagonista, sua sorella, suo fratello, il padre padrone e scellerato, e la disperazione di Mary che, a tratti, si mescola ad una rassegnazione impalpabile e profonda nei confronti di una pace che – come lei stessa ammette qualche riga più in là – non esiste. Mary è destinata ad una lunga immutabile solitudine del cuore, continuamente minacciata dalle invidie e dalla cattiveria degli altri, durante la quale soltanto la poesia avrà il potere di lenire la sofferenza di un vivere sterile nel quale non vi è suono d’acqua che sgorga e ogni roccia, ogni sasso diviene macigno insopportabile.

Ma la bellezza di questo romanzo sta nella continua capacità di sorprendere il lettore offrendogli repentini ed inaspettati cambi di rotta. Ed è così che dal buio pesto dell’abbandono ad una sofferenza senza fondo il libro offre una svolta che conduce ad un’oasi dolcissima, che, anche a colui che legge, riesce a regalare momenti di grazia e malinconica felicità. L’esempio più vivo di ciò è nel capitolo dedicato all’amica più cara di Mary: Delma. Un incontro che, quasi venti anni prima, aveva aperto le porte alla vera complicità fra anime gemelle. Delma, buona, generosa, disinteressata, rappresenta per Mary un rifugio sicuro dai mali della vita. Le due condividono una ricchezza smisurata fatta di attimi preziosi e, anche a distanza, le due amiche riescono a chiacchierare dei loro interessi letterari, a scambiarsi quelle intuizioni che si trasformeranno in progetti culturali comuni, senza che mai nasceno invidie o protagonismi spicci a separare i loro cuori. Delma è in grado di provare ciò che la sua compagna sente e di anticiparne, attraverso visioni che posseggono le caratteristiche dei più puri desideri, sensazioni e reazioni. Delma la consola, la spinge a continuare il suo lavoro di scrittrice, ad affidare alla potenza dei versi tutte quelle lame taglienti che le trafiggono l’anima. Di contro Mary guarda a Delma come ad una sorella di intelletto e di arte. Si fida dei suoi consigli, gioisce delle sue intuizioni sublimi. L’autrice stessa nel capitolo dedicato all’amicizia fra le due figure femminili scrive – era un’amicizia straordinaria, qualcosa di indissolubile che le teneva unite, legate da una fiducia incondizionata: non era necessario avere legami di sangue, ma solo onestà.

Una visione onesta della vita, della propria storia, del probabile futuro caratterizza l’intero narrare del libro, non soltanto quando Mary parla di sé e delle sue sfortunate vicende esistenziali o degli sporadici spiragli di conforto che provengono da un luogo, una situazione, un incontro, ma la verità scarnificatrice dell’indagine nella vita e nel cuore di tutti gli uomini, quelli comuni, quelli che Mary non incontrerà mai sul suo cammino si fa posto con prepotenza in alcuni angoli del libro.

Di una bellezza disarmante è la parte dedicata alle squallide e dolorose realtà delle case di cura, nelle quali i malati sono abbandonati alla lentezza di una esistenza pallida e senza futuro, senza conforto, senza sostegno, senza alcuna carezza silenziosa. Soltanto la punta di un iceberg che contiene nel suo gioco piramidale i mali del mondo: troppi per poter dare ad ognuno il giusto rilievo. Bambini che scompaiono dentro aloni di misteriosa violenza e giovani donne violentate nel corpo e nell’anima, private di ogni dignità e rispetto.

Ed è in queste pagine che la storia di Mary, prima bambina sfortunata, denudata della veste della sua infanzia e della gioiosa sorpresa nello scoprire il mondo intorno e poi donna, che contiene nel suo grembo l’essenza di figlia e madre insieme, artista illuminata e amante sconfitta, diviene il tassello di un mosaico più vasto, che supera i confini del tempo e dello spazio e diviene vicenda universale. Come quando un’immagine frantumata si ricompone all’interno di un caleidoscopio assumendo forme sempre nuove e per questo suggestive, ma in un frame stop improvviso, ad un occhio attento, quello splendido disegno appare null’altro che l’insieme di tante piccole insignificanti tessere nella propria solitudine.

Non dirmi che ho amato il vento! È, sulla falsa riga del romanzo precedente, un grande atto d’amore nei confronti della natura e delle sue più indifese creature: le foglie di un ulivo che fremono al vento autunnale, le spighe di grano che ondeggiano al sole di giugno, l’acqua che sgorga fra i sassi di un ruscello a primavera, la pioggia che bagna le bacche e i fiori di campo.

Prepotente il dipinto di uno scenario mediterraneo carico di colori e di profumi, che sembra modificarsi agli occhi delle protagonista in relazione agli stati d’animo, che i ricordi suscitano, o alle situazioni che Mary deve affrontare, a petto nudo, senza riparo alcuno. Al di sopra di ogni luogo visitato nel libro si erge Casa Destina a cui è interamente dedicato il capitolo 5.

L’autrice definisce Casa Destina un luogo e un amore oltre il tempo, ricoperta dall’edera del mistero che si abbarbica intorno alla storia di Mary e Raf, ne confonde a tratti le sensazioni e amplifica il loro amore. Il pensiero di quella dimora in una valle paradisiaca, a poca distanza dal mondo reale, quello dei comuni mortali, è capace di donare qualche spiraglio di pace interiore e si nutre dell’immagine felice dei due giovani amanti, che in quell luogo condividono le loro passioni forse ancora ignari che il tempo, nel suo passaggio, avrebbe lasciato ferite sulle loro mani e avrebbe riempito i loro occhi di lacrime salate, lasciando soltanto vuoto e rammarico per ciò che non avrebbero più vissuto. Una chiave a forma di cuore che, superato il cancello d’ingresso e il giardino sovrabbondante di arbusti abbandonati all’incuria del tempo e delle stagioni, apre la porta di una delle stanze della casa.

Quella porta assume nella narrazione il significato simbolico di un varco spazio temporale, una sorta di armageddon o di wormhole che catapulta i due amanti in un’altra dimensione, al di là dei confini della loro storia d’amore. “La stanza non era più quella di allora: né le sue pareti, un tempo pregne dell’amore di Raf e Mary, benchè rimanessero le sole testimoni e custodi di tanti segreti… Quel luogo, un tempo da loro amato come rifugio era stato brutalmente dturpato”.

Casa Destina segna un confine netto, assoluto, che divide in due l’esistenza di Mary e la pienezza del suo sentimento verso Raf. Il luogo, una volta palcoscenico privilegiato di un sentiment puro, forte, potenzialmente in grado di sovvertire i meccanismi perversi del fato, non si offre più come rifugio dorato per il loro reciproco amore a causa delle prepotenze e le malvagità dei violenti di cuore, che sono in grado di trasformare quella dimora in uno scenario di atroci sofferenze fisiche e profondo dolore interiore.

Ora ogni nuova alba a Casa Destina assume i colori della cupa sera invernale e aumenta a dismisura nella protagonista il bisogno di certezze e saldi punti di riferimento. “urgenza di capire cosa fosse l’animo umano e, a volte, per darsi pace, (Mary) cercava la solitudine del mare racchiuso in fondo ad una conchiglia, tra pieghe di parole, segnate di nero inchiostro”.

Nel tipico movimento ciclico della migliore tradizione letteraria dell’ultimo secolo ogni solitudine, ogni dolore, ogni nuova aridità del cuore conduce Mary alla necessità di trovare conforto nella scrittura. Soltanto le parole intorno a sé costruiscono alte pareti capaci di difenderla dal vento gelido dell’insensibilità umana e l’aiutano a fare chiarezza sul cammino da intraprendere fra le piaghe ancora aperte dell’invidia e della spicciola maldicenza. Al di là dei luoghi e delle comparse intorno a lei Mary diviene custode della sua stessa anima, alla ricerca spasmodica di una malinconica pace, seppure apparente.

In questa nuova consapevolezza del personaggio si apre l’ultima parte del romanzo che racconta in modo spesso frenetico e frammentato, quasi a volerne riprodurre gli stati d’animo contrastanti, a cui è difficile anche dare un nome che possa definirli, la fine della storia d’amore fra Mary e Raf. Un fulmine a ciel sereno si potrebbe pensare, ma di quale serenità parliamo se sappiamo molto bene che l’esistenza di Mary ha conosciuto fasi e mutamenti continui, ma che, mai, essi hanno suggerito un qualche barlume di mera serenità?

“Raf si sentì disorientato come se qualcuno lo stesse trascinando in un campo di concentramento o come se si trovasse nel bel mezzo di uno tsunami. Il tornado si era trasferito nel suo cervello”. Mary appare stupita, attonita, dinanzi a questo nuovo dolore, che appare troppo straziante per essere attraversato restando indenne. Eppure la sua indole di donna forte e combattiva non viene meno neppure questa volta e la dolce consapevolezza che sarà presto nuovamente madre riporta in superficie il suo spirito guerriero. Indomita, costruisce un’armatura per il cuore e riversa nella dolce attesa ogni sua tenue speranza per un futuro degno di potersi chiamare tale. La malattia, l’inganno e la lontananza la separano definitivamente da Raf, ma Mary, umile artigiana della scrittura, affida alle parole, al verso ogni sussulto, ogni timore dando voce ai silenzi che albergano nella sua anima.

Un sentimento pulito, casto, cresce dentro di lei e diviene un amore potente, capace di darle nuova linfa. Il suo corpo si trasforma e il tempo la rende infine madre affettuosa e attenta. Un vivace angelo biondo dà calore al suo letto rimasto gelido per troppo tempo e le ricambia quell’affetto di cui Mary ha sempre più bisogno.

Mary aveva amato il vento ed, è noto, il vento non ha dimora, lascia al suo passaggio l’eco di profumi e rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Mary aveva amato il soffio del maestrale, che sbatte le onde sulle rocce della scogliera e si insinua sin nelle profondità dell’oceano, lasciando dietro di sé scompiglio e nostalgia, ma ora tutto sembra mutare. Mary assume le sembianze di un soffice e bianco lenzuolo che avvolge il suo piccolo finchè il suo giovane respiro non diverrà calmo e profondo e il suo animo non prenderà il volo. “Madre, non ti sei pentita delle pene e delle spine perché coltivi il giglio del tuo solo amore”.

Please follow and like us: