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La letteratura di una lingua proibita

Lectio magistralis tenuta da Ismail Kadare in occasione del conferimento della Laurea Honoris causa in Scienze della Comunicazione sociale e istituzionale da parte dell’Università di Palermo, il giorno 11 giugno 2009.

La prima cosa che viene in mente a uno scrittore in procinto di ricevere una laurea «honoris causa» è che, se deve tenere un discorso, questo deve seguire il filo di un’argomentazione scientifica.

Non credo di dire qualcosa di nuovo nel ribadire che questo non è l’ambiente usuale per chi fa il mio mestiere. Ho notato che, per analoghe circostanze, i miei colleghi dell’ex impero comunista scelgono di soffermarsi sulla pressante repressione subita dalla letteratura nei rispettivi paesi. In altre parole, adottano un argomento che dovrebbe appartenere all’indagine giornalistica, anzi direi piuttosto alla sfera dei ricordi emotivi, connotandolo invece con lo status di argomento scientifico.

In fondo non c’è nulla di sbagliato. L’oppressione della letteratura e delle arti nel mondo comunista si innalzò a livello di una scienza, epperciò anche l’analisi di tale oppressione potrebbe utilizzare gli stessi mezzi e lo stesso registro di un’analisi scientifica.

Nonostante tutti i regimi autoritari abbiano avuto contrasti conflittuali con la letteratura, è stata quest’ultima che, alla fine, ha prevalso. Si deve tuttavia ammettere che, fra tutti i sistemi totalitari, il comunismo è stato l’unico che ha quasi trionfato contro la letteratura.

Di questa vicenda si è parlato a lungo, e quindi preferisco non dilungarmi oltre. Voglio ricordare soltanto un quesito che ci si è posti più volte: il comunismo ha forse inventato qualche nuova arma, un’arma che si sarebbe rivelata fatale nei confronti della letteratura? La risposta è sì. Ha usato davvero un nuovo stratagemma. Il comunismo è stato il primo sistema al mondo ad aver compreso che la grande letteratura non poteva essere controllata tramite la censura, le prigioni o altri simili espedienti coercitivi. Per metterla in ginocchio occorreva inventare ben altro. Questa nuova invenzione si realizzò con la creazione di una nuova razza di scrittori, una razza che con le proprie mani avrebbe dovuto distruggere l’arte della parola. Per dirla con Josif Brodski, non era necessario abbattere l’edificio della letteratura: sarebbe bastato sabotarne i mattoni, i materiali con i quali era stata edificata, e quell’edificio si sarebbe sgretolato da sé.  Questa “soluzione finale”, grazie all’invenzione del cosiddetto “realismo socialista”, fu raggiunta soltanto parzialmente. Vi è da chiedersi: perché non trionfò del tutto? Cosa non fu sufficiente alla causa? Forse, l’età del sistema? Probabilmente è stata quest’ultima. Il comunismo, com’è risaputo, ha avuto due età: una di 70 anni, che è stata raggiunta soltanto da due stati, l’Unione Sovietica e la Mongolia, e verso la quale si dirigono Cuba e la Corea del Nord; l’altra di 45 anni, che è più o meno quella dei paesi dell’Europa dell’Est, della quale faceva parte anche il mio paese, l’Albania.

Nella storia dell’umanità la “soluzione finale per la letteratura” ha conosciuto anche una versione più rara e ben più terrificante. Questa versione non ha a che fare col comunismo, ma con un’altra sciagura storica: la dominazione ottomana. L’invasione si estese per tutti i Balcani, sottomise decine di popoli, lingue e culture, separò i Balcani dall’Europa, prese di mira, in direzione settentrionale, l’Europa centrale e, in direzione occidentale, la penisola italiana. Il mio paese non può pretendere di essere stata una vittima isolata né del comunismo né dell’occupazione ottomana. L’Albania cadde sotto i turchi insieme a tutte le altre popolazioni balcaniche. Patì le stesse sofferenze infernali. Senza dubbio infernale è stata la durata della dominazione ottomana, un periodo lungo cinquecento anni. Fu un evento incredibile, tanto incredibile da sospingere recentemente alcuni revisionisti storici a sostenere la tesi secondo cui un periodo come quello ottomano, proprio perché di lunga durata, non può essere definito “dominazione”. Da qui, la ricerca di una definizione alternativa, diversa e soprattutto più vicina alla moderna visione europea della conciliazione dei popoli. In tutta franchezza, non credo che esista un altro termine in grado di sostituire la parola “dominazione”. Si tratta della medesima impossibilità che riguarda la parola “morte”, la cui durata è di gran lunga superiore a quella di qualsiasi dominazione: non è un caso che continuiamo a chiamarla come sempre, “morte”.

Ho voluto attirare la vostra attenzione sulla durata plurisecolare della dominazione ottomana, non per aumentare la drammaticità di un’esperienza storica che di per sé è fin troppo drammatica, ma semplicemente per tornare alla questione delle “soluzioni finali” escogitate per sottomettere la letteratura, questa volta per segnalarne una ben più terrificante di quella esperita dal comunismo. Si tratta della soluzione finale fondata sulla proibizione della scrittura stessa.

Lo dico sin dall’inizio: tra tutte le lingue dei Balcani, la lingua albanese, quella che uso io, è l’unica alla quale fu proibita la scrittura per cinque secoli. Non conosco altro paese nel continente europeo la cui lingua abbia patito un orrore simile. Perché? Perché nulla cambiò nel corso dei secoli, continuando la persecuzione sino alla fine, sino nei momenti in cui il fatiscente impero ottomano collassava?Mi è difficile rispondere a queste domande. Agli albanesi furono concesse tante cose: chiese, proprietà, alti gradi nell’esercito e nell’amministrazione, addirittura il posto di primo ministro imperiale, che ottennero diverse volte. Una sola cosa non fu mai concessa: la libertà di scrivere nella loro lingua.

Questo fu veramente un divieto drammatico che provocò danni irreparabili. Nella cronaca mondiale dell’istruzione non credo si trovino esempi di insegnanti e alunni massacrati lì per lì, senza pietà e senza rimorso perché sorpresi in flagrante durante lezioni segrete di lingua.

Che cosa può succedere a una lingua che subisce un tale sopruso? Cosa succede nelle sue viscere, lì dove agiscono i suoi più profondi meccanismi? Come convivono gli strumenti vivi con quelli che, uno dopo l’altro, sono già morti o sono in procinto di morire? In che modo una lingua proibita si regge in piedi, si addolcisce oppure si inasprisce? Che qualità acquisisce oppure perde? Fino ad oggi non m’è capitato di leggere studi specifici che si siano occupati di tali questioni. Certamente ne esistono, ma poiché sono uno tra gli scrittori che usano una di queste lingue, permettetemi di dire qualcosa in più su di essa. Mi limiterò a ricordare qualche appunto che ho preso anni addietro, durante un periodo piuttosto difficile, non solo della mia vita, ma del popolo al quale appartengo.«Unte’ paghesont peremetit Atit et birit et spertit senit».“Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.

Questa è la prima frase scritta in lingua albanese.

Per quanto ne sappia, non vi è un’altra lingua che inizi la sua storia scritta con la formula battesimale. Somiglia all’improvvisare di un poeta, anche se non ha nulla a che fare con l’improvvisazione. Il fatto è accaduto realmente. Il documento che contiene questa frase riporta pure una precisa data cronologica: l’8 novembre 1462. Una data destinata a portare il crisma di una sinistra coincidenza con l’8 novembre del 1941, quando, quasi cinquecento anni dopo, i comunisti albanesi fondarono il loro Partito. La coincidenza è marcata tuttavia da una differenza notevole: la formula battesimale è riportata in una circolare redatta in latino dal vescovo di Durazzo, Pal  Engjëlli (Paolo Angeli), al fine di istruire gli albanesi sul corretto modo di amministrare i sacramenti, dunque una sorta di vademecum a sostegno della religione. Il Partito Comunista, al contrario, avrebbe combattuto mortalmente la religione per rimuoverla ed espellerla brutalmente dall’universo culturale albanese. La religione, tuttavia, si s
arebbe aggirata senza pausa intorno all’Albania, nutrendo una speranza di segno opposto: di ritornare là dove era stata sradicata.

Nel 1555, un monaco cattolico, Gjon Buzuku, pubblicò il primo libro in albanese, una sorta di messale, compiendo per gli albanesi un’impresa identica a quella che Martin Lutero aveva realizzato per i tedeschi circa tre decenni prima. Nel 1592, l’arbëresh Luca Matranga, pubblicò “la canzona spirituale”, la prima poesia della letteratura colta albanese:Gjithëve u thërres, kush do ndëljesëTë mirë të krështe burra, e graMbë fjalët të Tinëzot të shihi meshëSe s’ ishtë njeri nesh çë mkatë s’ka.

Tutti vi chiamo, chiunque vuole indulgenza,Buoni cristiani, uomini e donne; Per le parole di Nostro Signore che ascoltiate messa,Ché non c’è alcuno di noi che peccato non abbia.

La bellezza di questi versi endecasillabi testimonia l’esistenza di una più antica tradizione di poesia colta, che affiancava e si aggiungeva a quella orale, di certo di ben più remote origini. Di quella tradizione scritta ben poco è sopravvissuto. Nel corso del grande esodo degli albanesi verso l’Italia, tra i numerosi episodi che scandirono lo strazio più grande patito da questo popolo durante gli ultimi duemila anni, tristissimo dev’essere stato quello dei libri e dei manoscritti probabilmente andati perduti. La disperazione, la fretta, il trauma psichico, i bagagli dimenticati, il fango della strada, l’acqua del mare, tutto ciò ha inghiottito parti della memoria storica conservata negli archivi signorili, nelle campane che venivano caricate sulle navi, nelle icone sacre e nei gioielli delle dame.  Shumë kambana ranë e u mbytën në det.

Ende dergjen atje, në terr e në ndryshkMe gjëmimin që e ndrynë përbrenda përjetë,E q’ashtu që së brendëshmi i gërryen e i ha.

Molte campane caddero e annegarono in mareAncora languiscono negli abissi, tra le tenebre e la ruggineCon il rintocco che eternamente risuona al loro interno,E che così, dalle viscere, le consuma e le divora. Nella nuova terra italiana, dove gli albanesi emigrarono, nuove campane potevano essere fuse per sostituire quelle perdute. Avrebbero avuto sicuramente un altro suono, e la cosa si potrebbe spiegare in diversi modi: l’aria non era la stessa, e poi non c’era più la montagna che ne faceva riecheggiare il tintinnio, la nuova valle aveva un’altra forma, pure il metallo era diverso… In fin dei conti, anche se più tardi qualcuno avrebbe ammesso che le campane erano sempre state le stesse e che, invece, a essere diversi erano loro, era stato facile rimpiazzare in qualche modo le campane, i gioielli e le icone. E, sebbene giammai avrebbero potuto recuperare i libri e i manoscritti smarriti, agli albanesi successe qualcosa che raramente si riscontra nella storia di altri popoli. Quando l’élite dell’Albania – i signori, gli ufficiali, i letterati, gli archivisti, i diplomatici, i conti, i duchi, gli scribi dei monasteri – non riuscendo a concepire la vita sotto il segno dell’Islam, fuggì oltre mare, sembrò che, insieme alle casse cariche di preziosi, avesse portato via anche il cervello della nazione. In qualche modo era proprio così. Tutto l’altipiano albanese cadde in uno stato di stordimento e di lutto. Il paese, come colpito da un ictus, pareva mutilato per sempre.

Proprio allora, invece, l’istinto di conservazione rimise in movimento la letteratura orale. Tra le montagne, dove ancora riverberava un raggio di luce, l’antica macchina tuonò ancora. Era rimasta sempre lì, anche se un po’ trascurata, specie dal momento in cui gli albanesi impararono, come tutti gli europei dotti, a scrivere e a pubblicare libri in lingua latina. (Uno di quei libri, quello scritto dal sacerdote scutarino Marino Barlezio, nel frattempo era stato tradotto in varie lingue europee). La macchina era rimasta lì da tempo immemorabile, ma solo in quel momento fatidico, proprio nel giorno dell’apocalisse, si comprese quanto essa fosse preziosa per il paese. Ma essa, come tutte le macchine di quel tipo, aveva i suoi capricci: non poteva funzionare se non con antichi materiali propellenti, con le leggi misteriose ereditate dai tempi omerici. Gli occhi dei rapsodi, offuscati alla vista degli ultimi seicento-settecento anni, ricominciarono a vedere perfettamente, perforando il muro del tempo: settecentocinquanta, ottocento, mille anni. Mentre l’Albania viveva la nuova tragedia, i rapsodi, incapaci di vederla, ritornarono a una tragedia molto più antica, l’invasione slava. Giù in pianura di tanto in tanto risuonava qualche rara campana, sfavillava qualche fuoco, uno qui, uno lì, tra le parrocchie mezze abbandonate. Tra gli anni 1566-1622, un altro prete cattolico, Pjetër Budi, scriveva i versi:Ku janë ato gra e vashandë sqimë e nde madhështime petka të mëndafshtanalcuom mbë zotërij?Gjithë mortja i rrëzoiSikur i pret me shpatë…

Dove sono quelle donne e ragazzeCon cura e solennitàCon abiti setosiInnalzate a signorilità?La morte tutte falciòCome da spada recise…Sono versi che, evocando curiosamente quelli della Ballade des dames du temps jadis di François Villon:Où sont-ils, où, Vierge souvraine?Mais où sont les neiges d’antan?,testimoniano che i cicloni poetici da sempre hanno attraversato il mondo, anche quando sembra che tutto sia diviso e che la comunicazione tra i poeti sia interrotta. Dopo Pjetër Budi nella letteratura albanese comparve Pjetër Bogdani, una delle menti più illuminate del mondo albanese. Era poeta, filosofo e grande saggio. In tutta la sua opera si percepiscono la sofferenza e la stanchezza di un titano. Da quasi duecento anni l’Albania era immersa nella notte ottomana, dunque più prossima alla mezzanotte (la mezzanotte sarebbe scoccata cinquant’anni dopo, mentre la notte si sarebbe dilungata per cinque secoli). Nessuno sapeva in quale preciso momento della notte si trovasse il paese in quel frangente storico, soltanto il poeta lo intuiva. Sentiva che sotto il peso asiatico, il mondo albanese scricchiolava e si asfissiava ogni giorno di più. La religione fu uno dei primi bastioni a cedere. Per una stranezza, tuttora inspiegabile, due dei popoli più antichi e più caparbi della regione, gli albanesi al nord e i cretesi al sud, segnalarono i primi casi di conversione all’Islam. Erano troppo antichi o, forse, ormai troppo stanchi del cristianesimo, religione che abbracciarono dopo essere stati tra i primi che, stanchi, abbandonarono il paganesimo? L’enigma permane irrisolto e dubito che qualcuno possa spiegarlo in futuro.

Il vescovo cattolico Pjetër Bogdani era addolorato non solo da questa nuova scissione, ma anche da numerose altre che accentuavano il declino dell’universo albanese. Osservava i colori che si ingrigivano, la musica che si storpiava, pure l’andatura degli albanesi, che si infiacchiva, mentre nelle loro menti, goccia a goccia, facevano breccia i concetti orientali, prima sconosciuti, “javashllëk” e “kismet”, che oggi in albanese valgono ‘apatia’ e ‘rassegnazione’. Per di più intuiva che anche la lingua albanese subiva gli influssi e i sordi colpi di coda della lingua dei dominatori, il turco. Bogdani, percependo i rischi di tutto questo, decise di intraprendere qualcosa di titanico, assumendo la responsabilità di sostenere sulle sue spalle il mondo nel momento in cui rischiava di crollare. In ciò si ravvisano i tratti galattici della sua opera, la sua universalità, le visioni planetarie e soprattutto i motivi cosmogonici. Furono queste caratteristiche a stupire particolarmente Lasgush Poradeci sin dal suo primo contatto con l’opera di Bogdani. Il grande poeta albanese ne rimase tanto affascinato da confessare: “Ho copiato una poe
sia cosmogonica, la quale, per la sua concezione originale, la potenza dell’idea e la forma particolare, ritengo che debba essere considerato come un monumento letterario non solo della lingua albanese, ma dell’intera repubblica delle lettere. La cosmogonia di questo grande albanese affronta dignitosamente sia la cosmogonia assiro-babilonese, come ci viene presentata dalla Bibbia ebraica, sia quella sanscrita, come ci è stata tramandata dai sacri Veda”.  Il titanismo, come la catastrofe, ricomparirà di tanto in tanto nella letteratura albanese degli anni a venire allo stesso modo dei cicli cosmici. Affiorerà durante il periodo della Rilindja con Naim Frashëri e, di nuovo, verso la fine del XX secolo, durante il dramma infuocato della Kosova, del quale si sente ancora l’odore di bruciato. Pjetër Bogdani era originario della Kosova. Ma questa non è l’unica ragione per cui la sua opera sia stata più studiata in quell’area albanese dei Balcani. La vera ragione, in realtà, risiede nel fatto che proprio nella Kosova si è rinnovata l’antica tragedia. Come l’angoscia turco-ottomana faceva risorgere nella poesia epica orale albanese il ricordo dell’invasione slava, così l’angoscia slavo-serba portava alla luce nella letteratura kosovara il ricordo dell’invasione ottomana.

Le lettere albanesi, armonicamente intrecciate da questo balenio di idee, nate con la sacra formula battesimale chiudevano il ciclo della loro resurrezione per mezzo di un’altra formula sacra: l’Albania è risorta dalla morte.

In conclusione di questo mio intervento vorrei ritornare sul tema della proibizione della scrittura della lingua albanese da cui sono partito. Che cosa avrebbero potuto fare i potenziali scrittori albanesi in quelle condizioni? Le alternative non erano molte, e tutte, inoltre, erano piuttosto desolanti.

La prima cosa che sovviene in casi simili è la rinuncia o l’abbandono di una delle più antiche passioni umane: la creazione letteraria. E la maggior parte dei potenziali scrittori albanesi scelse proprio questa strada: abbandonò l’arte della scrittura. Non conosciamo né potremo conoscere quanti siano stati. Sappiamo con esattezza che la cultura albanese mai più avrebbe recuperato ciò che aveva perduto. L’altra alternativa, più illusoria che reale, fu il ritorno alla vecchia tradizione rapsodica della letteratura orale. Va detto però che, malgrado la glorificazione che se ne fa oggi di quella tradizione, essa rimane sempre inferiore alla letteratura scritta. Una terza alternativa di sostanziale tristezza si concretizzò nell’uso di altre lingue europee, in primis del latino. Una parte degli scrittori albanesi si rifugiò in essa, conferendo in tal modo alla parola “emigrazione” un suono doppiamente drammatico. Un intero ciclo letterario fu creato così da coloro che in seguito sarebbero stati definiti gli autori cattolici del nord. Si trattò di una letteratura solida e forte che, vestendo panni latini, faceva palpitare il dramma albanese. L’idea di conformarsi alla invenzione letteraria turco-ottomana, a una sorta di letteratura lecita e, anzi, persino incoraggiata dagli invasori, fu la quarta alternativa, la più rischiosa oltre che la più illusoria, perché avrebbe potuto avere conseguenze fatali se avesse allignato nella cultura albanese. La caratteristica principale di questo espediente consistette nello scrivere non solo ricorrendo all’alfabeto arabo, ma – fatto ancor più grave – impastando la materia di questa pseudo-letteratura con un amalgama linguistico all’interno del quale l’albanese occupava un posto decisamente minoritario, per non dire secondario e accessorio. Come in uno specchio si vedeva chiaramente che lo schipico stava spirando asfissiato stretto nella morsa di un’altra lingua, che non solo era quella dell’occupatore, ma che aveva origini ben diverse da quelle indoeuropee dell’albanese. In tali condizioni e tra tali dilemmi gli scrittori albanesi hanno vagato per un lungo tempo come tigri in gabbia. Un’ultima soluzione, come quelle che soltanto la disperazione può generare, tuttavia sarebbe scaturita. Imitava un vecchio modello, lo stesso documentato da quella prima frase scritta in lingua albanese, dalla citata formula battesimale, rinvenuta, come ho già detto, nel corpo di un testo redatto in latino. Agli scrittori albanesi non rimaneva altro che seguire questo modello: insinuare brevi frasi in albanese all’interno di testi in latino, in una lingua che era immune alla proibizione delle leggi ottomane. In altre parole, trovare un rifugio per la propria lingua in pericolo di vita nel freddo corpo di una lingua che di vita non ne aveva più. Permettetemi di chiudere il mio intervento proiettando un’immagine che, per quanto possa apparire tragica, suscita tuttavia commozione per la sua forte valenza simbolica. La lingua del mio popolo ha cercato e trovato la propria salvezza in quella lingua non più viva, ma senza la quale non si può immaginare nemmeno la civiltà europea.

Albania News, 23 ottobre 2009

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