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I Tamburi della Pioggia di Kadare: l’inatteso, l’umano, la tecnica

Un romanzo epico anche che si tratta di un romanzo di quasi quarant’anni fa.

Kadare scrive, con “I tamburi della pioggia” un romanzo epico. Si tratta, tuttavia, di un’epica molto particolare, e nella quale, spesso fa uso di modalità a mio parere inattese, considerato anche che si tratta di un romanzo di quasi quarant’anni fa.

L’inatteso

Primo elemento inatteso: l’eroe, Scanderbeg, di fatto non compare mai. Si parla di lui per sentito dire, dagli altri. Addirittura, la resistenza di Kruja e l’eroismo di Scanderbeg vengono raccontati prevalentemente dalla punto di vista del nemico. Kadare ci fa raccontare dagli ottomani l’eroismo degli albanesi, la loro resistenza, il loro coraggio, la loro forza e al tempo stesso la loro sofferenza e la loro disperazione.

Perché? Perché non porre il focus dentro alle mura di Kruja?

Perchè la narrazione ne guadagna in potenza, forse. Perché lui stesso, Kadare, è di parte, e quindi partecipante. E ha forse avuto bisogno di uno sguardo distaccato. Ma certo, questa scelta imprime forza, potenza al messaggio. Altro elemento inatteso è il punto di vista. Sempre in cambiamento.

Chi è il protagonista dei “Tamburi”? Nessuno. Scanderbeg? Forse, ma non compare, nella narrazione. Viene addirittura citato saltuariamente, e quasi solo nella seconda parte. Chi è il protagonista? Il popolo di Kruja che resiste? Kadare riserva ai resistenti poche parole, tra un capitolo e l’altro, in cui spesso ci raccontano cose che gli ottomani hanno già detto. Forse il protagonista è la guerra, con le sue violenze e i suoi dolori. Ma Kadare, a mio parere, va più in là. Kadare ci parla dell’elemento umano. Di ciò che è umano.

L’umano

E lo fa in più parti del testo. Ci racconta, ad esempio, la folle, triste festa prima dell’attacco alla città fortificata.

Ci racconta di un poeta che diventa cieco, di uomini che muoiono e di giovani donne rapite. Ma c’è un punto in cui la poetica di Kadare spiazza e colpisce per la profonda umanità. Gli ottomani si accorgono che gli assalti alla cittadella fortificata risultano vani per la forza con la quale essa resiste.

Decidono allora di scavare una galleria per vanificare le difese passando dal sottosuolo. Gli assediati albanesi, però, si accorgono di questo espediente e fanno saltare la galleria,bloccando all’interno un gruppo di ottomani, il quale ha come unico orizzonte quello di aspettare la morte. In questo momento di attesa dell’inevitabile, c’è chi sente il bisogno di raccontare la propria vita, quasi a fissarla prima che essa si concluda.

«Non mi ascolti? Piangi? Comunque, ti ho raccontato la mia vita. Mi piacerebbe dirti qualche altro particolare. Ascoltami, se ti interessa. A ogni modo, non mi offenderò.»

La tecnica

In questo libro, c’è anche lo scontro tra la tecnica e l’eroismo. Gli ottomani sperimentano controKruja il cannone più potente al mondo. «È la prima volta nella storia dell’umanità che vengono impiegati simili cannoni. […] In confronto al loro boato, un terremoto sembrerà una ninnananna.» E questa tecnica spaventa.

Spaventa anche gli stessi artefici. Sarugia, l’ingegnere turco che ha inventato il cannone più potente al mondo, narra del suo maestro Saruhanli, ora rinchiuso perchè rifiutatosi di “ingrandire le bocche di fuoco”.

Un obiettore di coscienza. Lo stesso Saruhanli dice: “Se lo ingrandiamo ancora […] il cannone diventerà un’arma terribile, che decimerà il genere umano. Alla tecnica degli ottomani viene contrapposta la strategia, l’intelligenza di Scanderbeg, che fiacca lo sterminato esercito turco con attacchi notturni e repentini ripiegamenti. Kadare, con il suo “I tamburi della pioggia”, sembra sfidarci.

I Tamburi Della PioggiaCi racconta in anticipo gli orrori delle guerre che abbiamo conosciuto in questi anni. È il potere, la forza dell’allegoria. Wu Ming 1, in New Italian Epic, ci dice che “l’allegoria è un espediente retorico. La parola deriva dall’accostamento di due termini greci, allos (altro) ed egorein (parlare in pubblico).

“Parlare d’altro”, o “un altro parlare”. Dire una cosa per dirne un’altra. Raccontare una storia che in realtà è un’altra storia, perché i personaggi e le loro azioni sostituiscono altri personaggi e azioni, oppure personificano astrazioni, concetti, virtù morali.

Si dice che Kadare volesse costruire un’allegoria della resistenza della piccola Albania all’imperialismo stalinista. Negli anni in cui Kadare scriveva I tamburi, c’era la paura che l’Unione Sovietica replicasse nel Paese delle Aquile quanto già visto in Ungheria e Cecoslovacchia. Il libro parla, in realtà, della resistenza della città all’esercito ottomano guidato da Tursun Pascià, e dell’eroismo di Scanderbeg, che dall’esterno sosteneva la resistenza della cittadina con assalti notturni (e non solo) per fiaccare e battere il nemico.

Alla fine, dopo aver provato ad assaltare la città, ad invaderla passando attraverso un galleria scavata di nascosto, ad avvelenarla con topi infetti, a prenderla per sete tagliando l’acquedotto, i turchi si devono arrendere alle prime piogge autunnali, e rimandare il loro intento all’anno successivo. Torneranno, in realtà, per ben venticinque volte: tanti sono gli anni che resistette la piccola Albania all’invasione ottomana.

Vi è un passaggio epico, che riconosce il valore della resistenza degli albanesi, vista dai suoi avversari. A parlare è l’intendente capo.«Ogni primavera […] al rinascere del verde, torneremo in queste regioni. La terrà tremerà sotto i passi delle nostre truppe. Le valli verranno incendiate e tutto ciò che vi cresce o vi erge sarà ridotto in cenere.

La prospera economia di questo paese sarà rovinata; e da allora essi pronunceranno la parola ‘turco’ per mettere paura ai bambini. E tuttavia […] se non riusciremo a vincerli questa volta, alla nostra prima campagna, alla seconda avremo bisogno, per riuscirvi, del doppio delle forze, e alla terza del triplo, e così via.

Allora, anche se li vinceremo, non li sottometteremo mai. Attaccandoli, colpendoli senza pietà, irrompendo su di loro con le nostre innumerevoli armate, […] avremo fatto loro, involontariamente, un gran bene. […] Avremo creduto di dare loro la morte mentre con le nostre mani li rendevamo immortali.» L’unico modo per riuscire a batterli, dirà altrove, sarà quello di costruire moschee, mettere loro i costumi turchi e daro loro nomi turchi. L’invasione culturale.

L’unico modo per mettere in ginocchio un popolo. Questa la storia. Poi c’è la guerra. Crudele, cruenta. Che non risparmia nessuno. Assediati ed assedianti, ad un certo punto, paiono uniti in una danza di morte che non risparmia nemmeno i villaggi attorno alla città. Kadare ne narra gli orrori più estremi, come ad esempio il rapimento di alcune adolescenti albanesi, per sfamare le voglie dei soldati.

Non sopravviveranno alla prima sera, tanti saranno gli uomini che le prenderanno. E alle donne, Kadare, dedica molti pensieri, in questa storia al maschile.I turchi, quando parlano delle donne albanesi, dicono: «Spoglieremo delle vesti bianche e impudiche le loro donne e le loro fanciulle per rivestirle del nobile manto nero benedetto dalla religione. Ne copriremo con un velo i volti e gli occhi pieni di malizia […].

Ne faremo curvare le teste indocili sotto l’autorità maritale, come prescrive il santo Corano […]. A poco a poco, anno dopo anno,i loro costumi cadranno come i fiori dei meli. Esse si adatteranno alle nostre usanze, vi si abitueranno anzi al punto che, semai un giorno, Dio non voglia, dovessimo abbandonare questi luoghi, durerebbero molta fatica a rompere coni nostri costumi». Una storia di epica, di eroismo, e di umanità, raccontata in un linguaggio che stupisce per modernità, e che narra la resistenza di un popolo che è la storia di tutti i popoli, di tutte le resistenze.

 

 

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