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Mario Bellizzi: MATERIALI ETNOLOGICI ALBANESI

SACRI CONFINI – CRATOFANIE LITICHE E LE SCORIE NUCLEARI
Si sa dagli studi di etnologia sugli arbëreshë che la “Gjitonia” è lo spazio condiviso, l’insieme delle proiezioni degli interni delle case verso l’esterno, la socializzazione prodotta da esso e dentro esso raffinata, la trasmissione del sapere orizzontale, con annesso l’ospite che è sacro. Poco si sa sulla spazialità rurale, i confini, le divisioni dei campi, le frontiere esistenti in ciò che non è urbanizzato ma che rappresenta il serbatoio del cibo, le relazioni fra i contadini e il confronto nello tempo e nella geografia balcanica fra questi e i gjitonë dei terreni, ancor meno sappiamo dello spazio ‘femminile’ delle abitazioni e dello spazio abitato da forze più antiche e potenti, dove i limites, i confini sono sacri perché custodiscono il rapporto fra identità e differenze, e vi circolano molti fantasmi [cfr. F. Cassano [Il pensiero meridiano, 1996]. Ai profughi nel XV secolo, cioè agli immigrati albanesi in Italia, senza più terra e poi con terre dove in origini non vi era più un atto e un patto omicida, un sacrificio, pare si sia smagnetizzata nella psiche il valore indelebile dei confini, dell’idea di limite così marcati nel Kanun, retaggio comunque del Nord dell’Albania. Il religioso B. Palaj [Studime e Tekste, 1943] sostiene che la casistica esposta nel Kanun non ha pari, per vividezza ed esposizione classica e laconica, in nessuno altro testo, sia esso Bibbia o le XII tavole degli antichi Romani . Un contributo che può gettare luce su alcuni capitoli del Kanun, è quello di V. Dorsa:
Preservavano ancora dagl’incantesimi i teschi delle asine e delle cavalle, le corna de’ buoi o dei montoni, che i pastori appiccano sull’alto de’ loro ovili, i mugnai sul tetto de’ mulini, gli ortolani sulle siepi de’ loro orti. Di tale credenza ed uso presso i Romani ne parla Palladio. Quanto ai Greci scrive lo Schoemannn: «presso quei popoli la gente di campagna per salvarsi dalle malìe soleva appendere teste od ossa di parecchie specie di animali agli alberi innanzi alle case o nei campi». Esse ricordano le teste e membra degli animali e degli uomini immolati nei tempi barbari agli dei, e sospese poscia sugli alberi lungo le vie. Gli antichi in memoria del sacrificio fatto alla divinità inchiodavano sulla porta di casa la testa della vittima ornata di fiori.
Durand riporta l’idea di Wernert secondo il quale per il primitivo, la testa è centro e principio di vita, di forza fisica e psichica, e ugualmente ricettacolo dello spirito. Il culto dei crani sarebbe dunque la prima manifestazione religiosa dello psichismo umano. Il capitolo XIII del Kanun, all’art. 57, reca il titolo KUFÎNI (Il confine) e come sottotitolo Kufijt e tokës nuk luhen, i confini della terra non ballano, non sono ballerini, cioè sono inamovibili. Materialmente “i confini sono segnati da pietre grosse ed appuntite (picigjatë) conficcate tanto sotto terra quanto in superficie ed hanno attorno sei o dodici testimoni (dishmitarë) cioè delle piccole pietre (paperdhokë) sotterrate”. Il numero di dodici pietre forse ricorda i Dodici dèi, così come si chiamano sin dal settimo secolo fra Delo, Olimpia, Atene e Cos [G. Sissa, M. Detienne, La vita quotidiana degli dei greci, 1989]. Tale pratica mitologica rientra tra i rituali ascensionali: le pietre sottili e lunghe sono mezzi per raggiungere il cielo, cratofanie litiche, solari, uraniche e galliche; il termine composto pici+gjatë, significa ‘fallo lungo’. Nel simbolismo degli oggetti usati durante la sepoltura del morto, riporta A. Stipçeviq [Simbolet e kultit te Ilirët] vi è la deposizione attorno alla fossa di una serie di pietre che formano una sorta di corona. Tale usanza si riscontra, non solo in territorio illirico, e va dalla preistoria fino al periodo del bronzo e oltre. Non c’è dubbio che il cerchio di pietre avesse una funzione simbolica o per lo meno fosse legato a qualche sorta di culto o di magismo. Nonostante la non univocità interpretativa del culto fra le diverse popolazioni, scrive ancora Stipçeviq, si può affermare che la tomba del morto di febbre alta, ad esempio, fosse recintata con pietre bianche di fiume, tonde e lisce, ‘guraleca’, con il fine di proteggere i vivi dalla contaminazione della malattia letale. Ma dal materiale etnografico raccolto nei Balcani e altrove, si deduce chiaramente che i ‘guraleca’ personificavano le anime dei morti ed inoltre avessero particolari poteri magici. Altrettanta importanza viene data al posizionamento del morto, rispetto ai punti cardinali terrestri, cioè l’orientamento della tomba secondo l’asse ovest-est o viceversa; si può supporre che gli illiri avessero ben in mente la relazione tra la morte e il culto del sole nonché il tragitto quotidiano del sole paragonabile al cammino dell’uomo che lo porta nella fossa. L’isomorfismo solare, maschio, che gravita attorno alle pietre meteoriche e alle sommità, è quello che le consacra al dio Belen. Lo slavista M. Bagagiolo riporta una ‘Chronica Boemorum’ di Cosmas Pragensis (1045-1125) [Credenze religiose degli slavi precristiani, 1968], in cui vi è traccia anche del culto delle pietre, e nella III chronica è scrittto :
“il saggio principe abolì le istituzioni superstiziose che gli abitanti della campagna, ancora semipagani, osservavano (…) e parimenti proibì severamente le sepolture che si facevano nei campi e nelle selve (…)”.
Il momento della posa delle pietre lungo i confini rappresentava un momento solenne, carico di conseguenze, perciò dovevano intervenire i vecchi del paese (pleqt e katundit) e quanti più bambini e ragazzi anche dei villaggi limitrofi, perché si conservasse memoria quanto più a lungo possibile. Fra case e case, campi e campi, vigne, orti, boschi, ecc., villaggi e villaggi, esistono dei confini che, in qualche caso particolare possono essere anche momentanei; difatti, in attesa di un’epidemia, di una grave malattia, il villaggio si difende descrivendo un cerchio magico che lo avvolge, linea chiusa scavata da due buoi gemelli con l’aratro e condotti da due fratelli anch’essi gemelli. Ma il confine, in momenti fondativi, una volta fissato, rimane inamovibile per sempre (Kufîni i ngulun nji herë, nuk luhet mâ), le pietre attestano un patto concluso fra uomo e Dio, o fra uomo e uomo, scrive M. Eliade [Trattato di storia delle religioni, 1976] e citando Pausania (VII, 23,4), a proposito di Hermes, ci ricorda che in principio questo personaggio era solo una teofania di pietra, e i sassi collocati ai lati delle strade per “proteggerle”, conservarle e fecondarle, si chiamavano “hermai” e solo più tardi un “hèrmes”, una pietra lavorata “argoi lithoi” passò per immagine del dio. La soluzione di stabilire dei segmenti temporali di tre generazioni, calcolando che la lingua non cambia tra nonno e nipote, per trasmettere la convenzione semiotica delle pietre di confine, non fu ritenuta abbastanza durevole nel tempo, poiché presupponeva continuità sociale e territoriale e fu così che i legislatori del Kanun tornarono all’antico, creando miti, leggende e superstizioni attorno alla linea del confine! Efficaci tabù affiancarono la memoria delle parole e delle pietre, dei tumuli funerari e ciò fu incarnato nel tabù dei morti, nelle loro ossa, confini tra il corpo e l’anima, tra il visibile e l’invisibile. Come la pietra è incorruttibile, sostiene M. Eliade, così l’anima del defunto deve durare indefinitamente, senza disperdersi (l’eventuale simbolismo fallico delle pietre preistoriche conferma questo senso, perché il fallo è simbolo dell’esistenza, della forza, della durata). E Propp scrive [Feste agrarie russe, 1978] che:
“Nella concezione dei popoli antichi la morte non viene intesa come una trasformazione completa dell’essere. Essi credevano che i morti continuassero a vivere sotto terra ed avessero su di essa un potere maggiore di quello che aveva l’agricoltore (…)”.
Le ossa delle tombe e la pietra del confine sono la stessa cosa. “Spostare il confine è come spostare le ossa dei morti”, sentenzia il Kanun (Eshtent e vorrit e guri i kufînit faqe Kanunit jânë paraz. Me luejt kufînin âsht nji si me luejt me eshtent e të dekunve). La stessa soluzione fu proposta dal semiologo T. A. Sebeok nel 1984 al governo americano per tramandare il rischio di un’area dove erano seppellite delle scorie nucleari [U. Eco, La bustina di Minerva, in L’Espresso, 10 gennaio 2002]. Colui che avrà il compito di fissare o ripristinare le pietre di confine, “dovrà farlo in spirito” (do t’a mârrë në shpírt) dovrà prendere sulla spalla un sasso ed una zolla e, precedendo le due famiglie o i due villaggi, o le due Bandiere in contesa, fissa in terra i segnali dei nuovi confini, ma prima di fare ciò dovrà proferire un sacro giuramento (tuj kallxue shêjet).
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