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Ismail Kadare, L’incubo e il miraggo europeo dal nostro

Ismail Kadare, L’incubo e il miraggo europeo dal nostro

corrispondente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Il grande scrittore di Argirocastro, per molti anni esule in Francia per sfuggire al regime dittatoriale di Enver Hoxha, torna in libreria in Italia con un romanzo di quarant’anni fa che conserva tutta la potenza distopica e la freschezza dell’attualità. In un oppressivo Impero ogni cittadino è tenuto a fornire un resoconto scritto dei propri sogni. Che saranno valutati e nel caso puniti. «Quello spirito critico e radicale è ancora valido»

 

“Nell’ Impero ogni cittadino è tenuto a fornire una descrizione scritta dei propri sogni. Anche nelle regioni più remote, i sogni vengono raccolti e poi selezionati e interpretati dal Palazzo dei Sogni, cuore burocratico del potere. I sogni che sembrano più significativi vengono segnalati al Sultano, che può reagire in qualsiasi modo, comprese repressioni sanguinose. I cittadini si applicano con zelo, sperando in un riconoscimento ma temendo sempre di avere fatto il sogno sbagliato, che potrebbe portarli alla rovina. Il protagonista Mark Alem fa parte di una delle famiglie più potenti dell’Impero e all’interno del Palazzo viene incaricato dell’interpretazione dei sogni: «In quei fascicoli si trovava tutto il sonno del mondo, quell’oceano spaventoso sulla cui superficie tutti loro cercavano di distinguere qualche indicazione, qualche segnale perduto». Nei giorni in cui l’Albania torna sulla mappa dell’attualità, tra l’accordo con l’Italia sui migranti e i negoziati per entrare nell’Unione Europea, esce nelle librerie Il Palazzo dei Sogni (La nave di Teseo) del grande scrittore albanese Ismail Kadare, capolavoro scritto nel 1981, atto d’accusa contro tutti i totalitarismi che valse all’autore l’ostilità aperta del regime di Enver Hoxha e la fuga in Francia.

Signor Kadare, grazie per avere accettato di concedere questa rara intervista. L’occasione è la nuova pubblicazione in Italia di al Palazzo dei Sogni», il romanzo apparso in Albania nel 1981. Qual è, oggi, il suo sguardo verso un libro scritto oltre 4o anni fa?

«L’Albania di allora era un Paese totalitario. Come scrittore sentivo che la dimensione del comunismo e il suo potere sull’individuo erano diventati pervasivi. L’atmosfera descritta in quest’opera non si discosta poi molto dal totalitarismo oppressivo dell’Albania di Enver Hoxha. Nel momento in cui fu scritto era dunque assolutamente attuale, come lo è ancora oggi. Dopo quarant’anni, ritengo infatti che poco o nulla sia andato perduto delle sue qualità. Lo spirito critico e contestatorio verso quel periodo, che per molti di noi è stato davvero tremendo, è valido anche per i tempi che viviamo. Aggiungo anche che sono soddisfatto di aver avuto un pensiero così radicale e netto su quanto accadeva allora, e d’altra parte devo riconoscere che questa mia severità non si è affievolita nel tempo. Allora ci furono pressioni, divieti e critiche pesanti nei confronti del libro.

All’indomani della sua pubblicazione, per la prima volta pensai che mi avrebbero arrestato, poiché lo spirit antisistema contenuto in esso era abbastanza evidente. È dunque un immenso piacere per me restituire ai lettori di oggi le sensazioni di allora. La letteratura ti dà la possibilità di vivere vite che non sono la tua e in quelle condizioni non potevo fare altrimenti: il mio destino era vivere attraverso la letteratura».

E qual è il suo sguardo verso l’uomo e lo scrittore Ismail Kadare del 1981? Pensa di essere cambiato? «Non credo di essere cambiato. In letteratura le cose cambiano molto lentamente, anche nella mente di chi scrive, e questa è una cosa positiva. Nel 1981 le mie opinioni sul totalitarismo cercavano di configurare un’Albania europea e rintracciare quali erano le sue radici comuni. Ho difeso questa visione con le mie opere, naturalmente, credendo in una precoce appartenenza europea di questo popolo che ha vissuto uno dei sistemi comunisti più brutali. Tutta la mia opera cerca di accompagnare il lettore verso un risveglio interiore; una possibilità che la letteratura sa regalare, ma che in quegli anni sembrava impossibile».

Chi legge «Il Palazzo dei Sogni» oggi per la prima volta è colpito dalla sua attualità. Era conscio, già allora, della sua portata universale e intemporale?

«Lo scrittore sente intuitivamente, riguardo alle cose che scrive e vive, che anche se appartengono al presente allo stesso tempo sono eterne. Fortunatamente, il tema che si sviluppa in questo romanzo è senza tempo. Questa opera è una satira del totalitarismo, che oltrepassa i confini locali e nazionali. La traccia di questo romanzo si trova in uno dei racconti che scrissi parallelamente in quel periodo, forse nel racconto Qorrfermani (“L’occhio del tiranno”), dove c’è un personaggio che conduce il lettore nel mondo dei sogni o piuttosto degli incubi. Più tardi, questa idea mi ritornò in mente quando venni a conoscenza di alcuni furti che si stavano verificando a Tirana. Erano furti strani, insoliti, grotteschi, che avevano risvegliato in me una visione dell’inferno. Da tempo ero tentato dal progetto di scrivere qualcosa sull’inferno. Ho accennato a questa idea nel libro Il tempo della confessione, una conversazione con un ricercatore albanese dove sostengo che sapevo che era difficile, se non impossibile, scrivere una storia del genere. Dopo avere scritto i primi due capitoli dell’opera, però mi resi conto che stavo realizzando ciò che all’inizio mi era sembrato impossibile: una visione terrena dell’inferno.

Era una specie di regno della morte dove, se non noi stessi, erano il nostro sonno e i nostri sogni, una parte comunque della nostra vita, che erano nell’aldilà mentre noi eravamo qui. Il romanzo riflette la tensione tra etnie nazionali e sogno imperialista, tra un individuo e una dinastia i cui destini sono segnati dalla politica. Ero consapevole delle conseguenze fatali che la pubblicazione di una storia così poteva arrecarmi, ma ero altrettanto convinto della potenza universale di questo tema». Il potere dei sogni nel romanzo può essere paragonato al potere dell’informazione nel mondo di oggi?

«Le immagini potenti e la logica quasi surreale hanno reso il protagonista di questo romanzo, Mark Alem, spesso impotente di fronte al potere dei sogni. Il mondo umano ha la capacità di descriversi e ripetersi in molte forme, di trovare modi per sopravvivere agli ostacoli. L’allegoria del Palazzo dei Sogni nei nuovi contesti culturali e sociali, ovvero in un mondo che già si trova ad affrontare nuovi e più duri conflitti come i focolai di due nuove guerre, che ne mettono a rischio la stabilità, riporta l’attenzione sulla necessità di coltivare la saggezza. Il potere dell’informazione ai giorni nostri sta riproponendo un altro totalitarismo, quello dell’egemonia culturale. Preservare la cultura, le diverse culture, in queste agitate acque dell’informazione è un dovere inderogabile».

Che cosa pensa degli sforzi tecnologici, diffuse ovunque nel mondo contemporaneo, dalla Cina alla Silicon Valley, di digitalizzare e dunque forse un giorno controllare il pensiero dell’uomo?

«Mi sembra un’impresa davvero impossibile».

Lo stile del libro è piuttosto onirico, il protagonista Mark Alem vive in un’epoca indeterminata, al servizio di un Sultano in un Impero imprecisato. Questa scelta artistica era dettata anche dal tentative di sfuggire alla censura?

«Questo romanzo mi ha dato molti problemi, ma in qualche modo me l’aspettavo. La pubblicazione delle mie opere è stata spesso accompagnata da critiche dure sulla stampa e da successive riunioni della Lega degli Scrittori. Ovunque a Tirana si diceva che “il libro di Kadare verrà bandito e lui punito”. D’altra parte, la pubblicazione delle mie opere in Francia ha avuto una ripercussione eccezionale rispetto alla mia condizione di scrittore in Albania. Il lettore occidentale ha giocato un ruolo fondamentale nel salvare la mia situazione in patria».

Qual è stato appunto il ruolo del «Palazzo dei Sogni» nella sua situazione in Albania e nella decisione di andare a vivere a Parigi?

«Un giorno, al Café Rostand di Parigi, incontrai una giornalista francese che mi disse di essere andata alla nostra ambasciata per chiedere informazioni sulle mie condizioni. Dall’Occidente arrivavano infatti notizie secondo cui la stampa estera si stava interessando molto a me, il che spaventò abbastanza Enver Hoxha, ma in questo caso intervenne un meccanismo di difesa da parte dell’Occidente in mio favore. La partenza per la Francia e dunque la fuga dal mio Paese è avvenuta in circostanze drammatiche, per me è stato il periodo più buio della mia vita, ma ho anche capito che se volevo cambiare qualcosa l’unico modo era andare via da lì.

Hoxha non avrebbe mai consentito la democrazia in Albania. Ho deciso di andarmene quando ho realizzato che la mia partenza avrebbe potuto contribuire in qualche modo alla caduta del regime nel mio Paese».

Lei è nato nella stessa città di Enver Hoxha, Argirocastro. Qual è stato il suo rapporto con lui?

«Non ho mai avuto alcun rapporto personale con lui. Eravamo vicini di casa, nel quartiere più antico e grande di Argirocastro, nello stesso vicolo che ho fatto poi rivivere con il curioso nome di Sokaku i te marreve, la via dei matti. Hoxha non era molto conosciuto ad Argirocastro durante la guerra; in quel quartiere, poi, molte famiglie e le loro dimore avevano un’identità e un’immagine imponenti, non era concesso ad altri di emergere in alcun modo. D’altra parte, in nessuna mia opera si può rintracciare una descrizione in cui venga enfatizzata una qualche ammirazione per lui. Questo è evidente soprattutto nel romanzo L’inverno della grande solitudine, dove Hoxha è descritto minuziosamente insieme agli altri che facevano parte di quello che veniva definito allora il blocco comunista».

A ll anni ha copiato a mano tutto «Macbeth». Perché Shakespeare è stato così importante per lei? «Le tragedie di Shakespeare hanno occupato la mia mente fin da quando ero bambino. Macbeth mi ha mostrato il mondo della letteratura. Ho ceduto a questo fascino come ci si arrende a una religione. Avevo l’idea che se avessi ricopiato il libro in qualche modo l’avrei fatto mio, come se ne diventassi l’autore; così l’ho ricopiato tutto a mano con carta e matita. Mi rendo conto che può essere considerata come una cosa bizzarra, nemmeno io riesco a spiegarmelo fino in fondo, ma questa idea mi è rimasta impressa per molto tempo, pensando che ricopiando un libro partecipavo anche alla sua creazione. Shakespeare è sempre stato fonda mentale nel mio lavoro, continua ad esserlo anche oggi, è un maestro che ti guida ad attraversare le porte della grande letteratura».

A differenza di altri grandi scrittori in esilio, come Conrad, Nabokov o Kundera, non ha mai abbandonato la sua lingua d’origine, l’albanese. Come mai? «Pensavo di poter dare di più al mondo dell’arte nella mia lingua materna. L’albanese mi ha concesso la libertà per esprimere compiutamente la mia immaginazione. Non ho mai percepito ostacoli, anzi, sono rimasto in qualche modo sempre affascinato dalla sua bellezza».

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