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GLI ARBËRESHË E IL REGIME DI CRISTIANITÀ, UNA RIFLESSIONE

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di Zef Giuseppe Chiaramonte

Nella Cristianità medievale, a livello ufficiale, i popoli non venivano riconosciuti come etnia, ma secondo l’appartenenza religiosa.
Da qui nasce la distinzione tra greci e latini, cui corrisponde l’uso liturgico del greco o del latino. Altra distinzione: orientali e occidentali e, finalmente, ortodossi e cattolici.
L’Impero Romano d’Oriente e, poi, l’Impero Ottomano pur se di fatto, multietnici, consideravano i sudditi (milliet) come latini romei/rum, musulmani/muslim, giudei.
Il termine albanòi, in sostituzione di illiri, si incontra per la prima volta in Anna Comnena. Essa lamenta la loro frattura con i greci, coi quali avevano retto, in isopolitia , le sorti dell’Impero.
Tra le Potenze che, intanto, si erano ritagliate un territorio all’interno dell’Impero d’Oriente, annoveriamo Venezia.
Uno dei suoi domini era il Peloponneso, dove grecofoni e albanofoni vivevano fianco a fianco e interscambiavano le due lingue. Tuttavia, molti documenti attestano che Venezia preferiva gli albanesi ai greci, perché li riteneva più fedeli per la difesa dei propri capisaldi (cfr. il concetto di besa)
Anche il nome medievale del Peloponneso deriva dall’albanese man/mën, cioè mora, da dove Morea.
Intervenuta, a varie tappe, l’occupazione dei Balcani (già Penisola Illirica, poi Romània e quindi Rumelìa e Balkan), la popolazione albanese del Sud (toschi) e quella della Morea (arvaniti), abbandonarono in massa la regione e si rifugiarono nel nostro Regno del Sud: Napoli e Sicilia.
Il regime allora vigente faceva percepire gli immigrati come greci, in quanto non latini.
Si sarà pervenuti a tale risultato anche a causa dei seguenti tre elementi:
– i profughi avevano un diverso rituale nella liturgia, ma la lingua usata era il greco;
-la distinzione tra greci e latini era preesistente in Sicilia (cfr. Lettere di Gregorio Magno e la tripartizione etnica del Regnum Siciliae normanno);
-i feudatari nei cui possedimenti furono ospitati i profughi, erano ecclesiastici nella maggior parte;
Come tali essi privilegiarono la distinzione religiosa. Li chiamarono greci.
Gli scrittori di cose siciliane, da Fazello in poi, e i documenti notarili, però, parlano di graeci seu albanenses. I due termini denotano, da una parte, la distinzione ufficiale in termini di cristianità, dall’altra, l’autocoscienza identitaria dei profughi come Arbër.
A livello popolare, tuttavia, gli appellativi furono diversi:
testa di grecu, che fa pendant con caveza d’arnaut, usata dagli ebrei di Spagna per gli albanesi, ne indica l’indole testarda, o ferma nel mantenimento della lingua e delle tradizioni proprie;
gjegjé, dall’ intercalare l’interrogativo e gjegje?= hai sentito?
jartù, dal modo di dire, eja këtu, corrotto in eja rtu= vjeni qui.

Il caso de “La Piana”

La piana inizia ai piedi dell’abitato di Piana degli Albanesi e si estende sino a Merrughat, in territorio di S.Cristina Gela.
E’ racchiusa tra Kazaghot, i monti Kumeta ( al Kumajt), Maganoce, Leardo e Rossella/Turdiepi, a sud. Dalle alture di Mëndra e Muzakjës, Costa Marcione, Firrjati, Baghatelet, Guri i Korvit e Sëndahstina, a est.
Non sappiamo se e come fosse diviso questo territorio nel periodo romano e bizantino, mentre dai documenti normanni esso risulta diviso tra la città di Palermo e la città di Jato. Impluvio e confine comune il Belice Destro.
La parte relativa a Palermo viene concessa all’Arcivescovo di Palermo il
12 febbraio 1095 con privilegio del Gran Conte Ruggero. Da ciò una prima denominazione di Piana dell’Arcivescovo.
Nel 1182, il re Guglielmo II, il Buono, concede la parte relativa a Jato alla Diocesi di Monreale di nuova creazione. Si estende anche a questa parte la denominazione di Piana dell’Arcivescovo.
Pare che precedentemente la zona venisse intesa come Valle dell’Inferno.
Forse per l’intrigo di boschi e sterpaglie seguito all’esaurimento della manodopera dei coloni arabi, oppure per la presenza dell’orrido abisso del Honi.
Con l’impianto degli Arbëreshë nella parte montuosa della pertinenza monregalese, il conglomerato di capanne, prima, e di case, dopo, fu chiamato dall’amministrazione arcivescovile Casale dei Greci. Mentre gli altri arbëreshë lo chiamarono Kazallot / Kazallonë.
Spostatosi l’insediamento più a valle, quasi a toccare la pianura, si inizia a parlare di Casale de la Piana.
Cessata l’amministrazione feudale (1812) e in vista della nascita dei Comuni in Sicilia (1 gennaio 1818), l’amministrazione borbonica chiese al signore feudale il nome e lo stemma da assegnarsi al futuro Comune.
Per le considerazioni sopra delucidate, l’Arcivescovo-barone indicò il nome di Piana dei Greci.
Tale denominazione, pertanto, diventa ufficiale per il Comune.
Piana dei Greci viene riportato in calce allo stemma comunale, mentre l’aquila bicipite che notiamo al centro viene contornata dalla scritta Nobilis Planae Albanensis Civitas.
Questa apparente contraddizione pare sfuggita agli studiosi, lasciando spazio a molte ricostruzioni e spiegazioni, non di rado tendenziose, sia in Italia che all’estero (Grecia).
Non di contraddizione, però, si tratta, ma della ridutio ad unum
di due impostazioni mentali.
L’Arcivescovo ragiona ancora in termini ufficiali di Cristianità, i Giurati e il Vicario foraneo in termini di etnicità.
D’altra parte, S.P.Q.A. (SENATUS POPULUSQUAE ALNANSIS) e N.P.A.C. (NABILIS PLANAE ALBANENSIS VIVITAS) le troviamo già da prima impresse in pubbliche opere architettoniche.
La confusione tra rito greco -che oggi va chiamato bizantino- e grecità etnica va rigettata, così come va rigettata l’equivalenza tra ortodosso= greco.
Il termine bizantino, usato per la prima volta a metà del Settecento per indicare una fase della lingua greca, ci soccorre finalmente a vedere gli Arbëreshë come antichi Albanesi d’ Italia, e la loro Chiesa come bizantino-arbëreshe (non più greca e neppure bizantino-greca o greco-bizantina!)
Così li annovera, ufficialmente, anche l’Annuario Pontificio.

zef.chiaramonte@yahoo.it

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