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…E ADESSO PARLO: PER AMORE PARLO

 

Sandro Angelucci

Avere in mano un romanzo come …E adesso parlo non significa meramente prepararsi a sfogliare un libro di narrativa con l’aspettativa di trovarvi una trama avvincente e un costrutto che soddisfi il piacere della lettura, dell’evasione o della diversione mentale. Chi cerca tutto questo non ha che l’imbarazzo della scelta: entrare in una libreria, acquistare un best seller e, nel tempo libero (magari sotto l’ombrellone), iniziare ad appassionarsi alla sua fruizione.

Rapimento, dunque, che non necessariamente deve acquisire una connotazione negativa ma, di sicuro, non può essere accostato al genere di coinvolgimento che, invece, suscita nel lettore quest’ultima fatica letteraria di Maria Teresa Liuzzo.

La passione, qui, non è sinonimo di vacuo e superficiale interesse, non tende ad una partecipazione che mantiene comunque le distanze ma ad un coinvolgimento effettivo, ad una identificazione; in una sola parola, ad una condivisione del sentire.

Da un punto di vista etimologico, passione deriva da passus: participio passato di pati: “patire, soffrire”, e rifarsi alla radice è indispensabile nel caso della scrittura in questione. Il pathos, oltre ad essere contagioso, inizia a manifestarsi ed esprimersi prima ancora di leggere. La copertina dell’elegante veste editoriale è rossa, non un rosso cardinale – come sostiene Mauro Decastelli nella sua acuta e impeccabile prefazione -, “è già tuttavia lì in forma vivacemente cromatica il pensiero dominante del libro, che è il rosso in tutta la sua gamma semantica ed esistenziale, oltre che religiosa…”.

Cogliere nel colore l’essenza, la sostanza del libro è stata, da parte del prefatore, una vera e propria illuminazione dacché si è di fronte ad un elemento chiave: “…tutti pensiamo di sapere che cosa sia il colore rosso; – prosegue – in questo libro, però, molti, me compreso, scopriranno al contrario, e senza punto stupirsene, di saperne realmente poco della potenza affascinante e simbolica che questa tinta esprime a più livelli di significato.”.

Parlavo, pocanzi, di passione, e anche in questo caso si suole accostarne la rappresentazione alla tonalità del rosso, appunto. Non va, tuttavia, dimenticato che si può patire per tante ragioni: per amore come per odio, persino per eccesso di gioia oltreché per dolore.

Bene: sono esattamente queste scale di tono che si susseguono nel testo, che scorrono come sangue arterioso e venoso in ogni pagina del romanzo attraverso le vene tracciate dalla penna stessa di chi scrive.

“Mary (la protagonista) era la maggiore di tante sorelle e fratelli, e subito, a cinque anni, fu costretta a trasformarsi in donnetta di casa… Sentiva urla, riceveva minacce e maltrattamenti […] Mary era la figlia della colpa, e per questo andava punita, soprattutto quando accorreva in aiuto della madre per strapparla alla collera del padre che, anche quando la moglie era in avanzato stato di gravidanza, la pestava e le faceva vomitare sangue. Ma era solo l’inizio di un incubo senza fine che la faceva sentire un involucro senz’anima, figlia di nessuno.”.

Un breve passo per comprendere la drammaticità del timbro narrativo e nondimeno i tanti esempi di prosa poetica che affiancano, quasi a lenirla, la tragedia vissuta dalla bambina prima e dalla donna poi: “Il miracolo della fede…che Mary avvertiva in ogni fremito di vento, quando questo velava la luna immersa e calda di mare tra il sudore delle rocce e spogliava il cuore di tante parentesi amare, regalando secondi di tenero oblio come un dolce dondolare di culla che il cuore di lei aveva sempre cercato ma che non aveva mai conosciuto.”.

Ho inteso riportare l’ultimo stralcio perché risulti chiaro, a chi avrà la pazienza e la bontà di leggermi, che la funzione catartica della poesia è l’unica via d’uscita, scrivere (scrivere versi in particolare) è liberatorio: magari per pochi “secondi di tenero oblio”, ma – senza – neppure quel “dolce dondolare di culla” potrebbe e saprebbe sostituire le mancate ninnenanne, potrebbe e saprebbe essere l’àncora che impedisce alla ‘barca’ di andare ad infrangersi contro gli scogli di un’isola disperatamente nefasta ed esiziale.

Percorrendo le varie fasi di un’esistenza avvilita ed angustiata, quale è quella che ci viene descritta e, nella sua dura realtà, mostrata in queste pagine, si resta sbigottiti e – non esito a dirlo – increduli al cospetto di un’efferatezza davvero senza limiti e ad una resistenza che ha dello straordinario; perplessi ma non scettici poiché la storia – si avverte – è tutt’altro che romanzata.

Nel III capitolo, La prigionia, vengono raccontati due episodi che danno un’idea esaustiva di quanta crudeltà ed esecrabile violenza si sia abbattuta sulla drammatica esperienza esistenziale di Mary: “Una sera, assieme alla sorella Fiamma, il padre cominciò a darle lezioni di guida, ma quando Mary sentì le sue mani sulle gambe, reagì in malo modo, così lui spalancò lo sportello della macchina e la buttò a terra…”; “Mary pensava a come morire…Entrò nel bagno, prese una lametta da barba e si tagliò le vene […] si era rivolta alle zie materne, che all’inizio le avevano promesso di intervenire, ma poi avevano cambiato idea, come altre persone fidate di famiglia, quelle che spesso indossavano la maschera del perbenismo: gente bigotta e falsa, padri e madri di famiglia la cui unica cosa che riuscirono a suggerirle fu: ‘Ma in fin dei conti dagli quello che vuole!’”.

Consigli – si fa per dire – di persone che definire umane è un eufemismo; mostri che, in nome dell’apparenza e dell’omertà, hanno definitivamente rinunciato all’anima ed all’amore votandosi al nulla.

“Ma la morte l’aveva risparmiata forse per farle vivere altre morti ancora” e, a questo proposito, sarà opportuno che il lettore tenga in alta considerazione la figura di Raf, tanto enigmatica quanto preponderante, per non risolvere il tutto nella drammaticità che – pure – caratterizza l’opera. Succede che, ad un certo punto, la narrazione si cinge di un velo di mistero: la protagonista sembra abbandonare la vita terrena – almeno è questa l’impressione -, in realtà la sua non è una dipartita ed ha tutti i crismi (sebbene non venga detto esplicitamente) di un viaggio attraverso lo stretto cunicolo del coma se è vero, come è vero, che Mary si osserva da un’altra dimensione.

Raf, dunque – a mio modo di vedere – incarna la rivalsa, non la ritorsione ma la rivincita dell’amore sull’odio, della lealtà sul sopruso, della rettitudine sull’immoralità. E bene ha fatto l’Autrice a non dissolvere quell’alone che orbita intorno al personaggio: ciò contribuisce a renderne ancora più luminosa la presenza; una presenza-assenza che esclude – per l’appunto – qualsiasi vendetta, qualunque tentativo di farsi sommaria e inappagante giustizia.

Mi accingo a concludere; tuttavia sento il bisogno di aggiungere (anche a sostegno di quanto sopra espresso) che il romanzo della Liuzzo può essere sicuramente considerato un exemplum costituendo, lo stesso, un racconto didascalico utilissimo a che si comprenda il vero senso del dolore e della fede nella sacralità dell’insostituibile valore della vita.

Mentre il padre, morente, implora il suo perdono, Mary, “tra le lacrime”, annuisce: aveva subìto ogni genere di angherie, ora, nel momento della verità, toccava a lui porgere – tardi? – l’altra guancia.

 

 

…E adesso parlo. Maria Teresa Liuzzo. A.G.A.R. Editrice. Reggio Calabria. 2019. Pp.160. sip.

 

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